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Morrissey a Salonicco (I will see you – magari fino alla fine – in a far off place)

November 28th, 2006 | By benty in Senza categoria | 9 Comments »

I più anziani lettori di questo blog ricorderanno che a suo tempo provai a vedere Morrissey sul palco. Ci ero arrivato fino a Benicassim, anni fa, e Zio Ciuffo mi diede buca a due ore dall’inizio del concerto, senza scuse. Ma lui è un po’ così, si sa. Mi rassegnai pensando "Verrà un giorno che sentirò There is a light that never goes out dal vivo, dalla tua voce, oh sommo Patrick Steven". Quel giorno era – in via del tutto teorica – ieri sera.

La notizia circolava da mesi, Morrissey a Salonicco. Appena confermata la data ci siamo fiondati a prendere i biglietti, ché il concerto sarebbe stato un prevedibile sold out nonostante i 45 euri (quarantacinque = novantamila lire del vecchio conio cit. Bonolis) di biglietto. Cancello e anticipo le lezioni odierne (con ulteriore aggravio dei costi personali, non per buttarla sempre sull’economico eh, ma per Morrissey non baderò a spese, mi dico), vado a prendere la mia bella a casa e partiamo entusiasti verso il Principal.

Il Principal è un locale a soli 19 chilometri di comodo sterrato da Salonicco, e per conoscere le indicazioni esatte su come arrivarci occorre essere iscritti a una loggia massonica. Però è un posto ideale per concerti del genere, raccolto e con una discreta acustica. Il muro umano in platea è compatto mentre suona ancora il gruppo di supporto, ovvero Kristeen Young, di cui non so nulla. Lei vestita di tulle argentata e tacchi alti alle tastiere moleste e synth, lui batterista nerboruto. Interessanti, aggressivi e piacevolmente scombinati, un po’ Dresden Dolls, ma più arcigno come stile.

Mentre preparano la strumentazione e il palco per Moz, proiettano su un grande schermo dei video video, non so se scelti da Morrissey in persona o in ordine random, che hanno il pregio di spaziare dai NY Dolls a Gigliola Cinquetti (tutto vero).

Poi arriva Morrissey. Completo nero e cravatta quasi fucsia. Arringa la folla prima di iniziare urlando "Vassanistirio, Vassanistirio Vassanistirio !!!" (dal greco "tormento") e attacca con Panic. Nonostante gli acciacchi che mi merito, se alla mia età ancora mi ostino a cimentarmi contro dei diciottenni nel giouco del calcetto la domenica sera, comincio a saltare perdendo il controllo e il contegno.

Patrick Steven Morrissey, ex cantante di un certo gruppo che tanto ci piace ancora, è in gran forma. Teatrale più che mai, giganteggia su un palco che sembra piccolissimo e su cui si muove sicuro e piacione. Fa linguacce, si sbottona la camicia mostrando come suo usuale vezzo il petto, stringe mani alle prime file in deliquio, fa il crooner e un po’ il rocker, usa il cavo del microfono a mo di frusta, sale sulle casse spia in equilibrio precario. Noi siamo in alto, defilati sulla destra, ma sembra di vederlo negli occhi da quanto siamo vicini. La folla saltellante e infoiata non fa a tempo a finire di urlare Hang the dj, mentre lui si sfila la cravatta, che già è partita First of the gang to die, scatenando un’altra ovazione e una cantata di ritornello collettiva.

Fra un pezzo e l’altro parla col pubblico chiedendogli che canzone si aspettano, e si rivela pure notevole entertainer. "Quando sono arrivato nella vostra splendida città non ho potuto fare a meno di notare che c’erano molti manifesti affissi che pubblicizzavano questa serata. Quando mi sono accorto che il mio nome era stato scritto in modo sbagliato (è vero, in tutti i manifesti e pure nei biglietti-ormai-cimelio hanno scritto Morrisey, con una esse sola ndB) devo confessare che ho pianto. E devo dire che mi è dispiaciuto anche perchè invece lo spelling dei Kaiser Chiefs era giusto" (i Kaiser Chiefs suoneranno nello stesso locale fra due giorni e ci sono altrettanti manifesti in giro per Salonicco a reclamizzare ndB).

Terzo pezzo The youngest was the most loved, poi You have killed me, il pubblico è in estasi o almeno io lo sono, sorpreso da un inizio così tirato. Chissà che ci aspetta per il finale, pregusto ottimista. Ad Atene hanno fatto parecchi pezzi degli Smiths, si vocifera. La band, completamente vestita di bianco con tanto di giacca, pesta parecchio, si fanno sentire le due chitarre, ma i quattro componenti del Morrissey group, presentati sin dal secondo o terzo pezzo, restano quasi sempre defilati, ché la scena va lasciata al re nerovestito. Che ci delizia con Everyday is like sunday, poi con Let me kiss you su cui parte la camicia nera verso le prime file lasciando Moz a torso nudo nel boato del pubblico generosamente pagante. Poi si cambia (camicia blu stile forzitalia) e ci fa anche Disappointed, Ganglord, poi I’ve changed my plead to guilt, poi (momento altamente godurioso per il sottoscritto) William it was really nothing.

Quando inizia I will see you in a far off place, con fragori di chitarre che manco i Metallica, la mia ragazza vacilla. Sarà il caldo, sarà il fumo, sarà l’emozione, sarà spirito d’emulazione verso altri malori recenti più celebri, sarà il fato. Vado a prenderle un po’ d’acqua ma non ce la facciamo proprio a rimanere, che decisamente non sta bene la ragazza. Decidiamo affranti di andarcene dopo un’ora di concerto. Conforta sapere che alla fine Moz nemmeno l’ha cantata There is a light that never goes out, così non mi resta manco il rimpiantino. La precoce dipartita dal locale assume a posteriori un risvolto inquietante, in particolare quando ho realizzato che siamo usciti proprio mentre il beffardo Morrissey ci cantava "Girlfriend in a coma I know, i know it is serious"

setlist intera qui

Dolci commiati: Offlaga Disco Pax ad Ancona

April 28th, 2006 | By benty in Senza categoria | 10 Comments »

Si conclude in gloria, più che in bellezza, la mia abituale permanenza pasquale nel suolo italo-marchigiano. Infatti ieri sera mi sono tolto lo sfizio, non piccolo, di ri-assistere, ad un anno di distanza, al concerto della mia band italiana del corazon dell’ultimo anno e mezzo, almeno. Di scena, ancora al Thermos ( strenuo baluardo della buona musica nelle Marche, vista la finaccia che stanno facendo Barfly e Mamamia) gli Offlaga Disco Pax, e non aggiungo aggettivi, che il nome ormai basta a sè stesso, e a me pure. Il locale comincia a riempirsi presto, tanta gente lì dentro non l’avevo mai vista. Me lo sentivo che il tam tam blogghico, le copertine dei magazine, i premi accumulati nell’ultimo anno e soprattutto il passaparola, avrebbero richiamato molta più gente rispetto all’anno scorso. Quindi arrivo con largo anticipo e mi piazzo fra le prime file. I simboli più rappresentativi dell’immaginario offlaghiano sono già ben disposti sul palco: manifesto anti centrale Offlaga, proveniente dalla bassa bresciana, tabella "Ceska Posta" in legno, confezioni di Tatranky a go-go e sopra di esse la foca talpa dei cartoni animati cechi, del periodo guerra fredda. Sul leggìo di Max troneggia anche una copertina – credo -di cronaca vera.

Purtroppo prima degli Offlaga si abbatte sull’ignaro pubblico una estenuante e superflua performance di un duo, dedito ad una specie di elettronica tamarroide a tratti con interventi di chitarra, su cui vengono riversati testi random, o almeno così voglio sperare. Primo pezzo: te lo ricordi Kurt Cobain, con i capelli lunghi e la camicia a quadri? Secondo pezzo: guarda il porco davanti alla tv che ingrassa, ad libitum. Terzo, quarto e temo quinto pezzo: mi arrendo, e accendo ripetute sigarette all’esterno del locale. Quinto pezzo: Iggy pop suck my dick, col finale a medio alzato e urletti di circostanza, chino il capo in segno di resa incondizionata, idealmente sventolo bandiera bianca. Ma passiamo al clou della dorica serata.

Introdotti da inadeguate canzuncielle cubane si sistemano sul palco Enrico (boccia di vino e tastiere) Max (maglietta Diaframma e tosse) e Daniele (maglietta Bright Eyes e nonchalance). Partono con Kappler, dopo i proclami autoreferenziali (ODP è un collettivo neosensibilista contrario alla democrazia dei sentimenti etc..), che l’anno scorso mi ero probabilmente perso. Fanno tutti i pezzi di Socialismo Tascabile e nei bis anche l’inedita Cioccolato IACP e di nuovo Enver (non il noto epigono di Paulo Sousa). Li trovo molto a loro agio, nonostante qualche problema alle luci, sciolti e sicuri. Dopo oltre un anno di concerti e di crescente successo era quanto mi aspettavo. Daniele ed Enrico restano come l’altra volta abbastanza defilati e dediti alle musiche (alcuni brani credo abbiano subito dei lievi riarrangiamenti, sia rispetto all’album che al concerto dell’anno scorso) e lasciano a Max la scena, il ruolo dell’istrionico narratore, che assolve con teatralità misurata ma efficace. Non mancano le piogge di Tatranky e Cinnamon, di cui approfitto a piene mani. L’anno scorso non mi ricordo di aver visto le copertine di Felicità di Al Bano e Romina, esibite sempre su Tatranky. Il pubblico degli Offlaga è composto da gente strana, direi; gente che canticchia racconti, che ridacchia amaro, gente attenta alle storie quanto trasportata dalle musiche. Gli Offlaga lo sanno bene, ed hanno imparato a giocare con le pause, attendendo prima di far partire quelli che sarebbero equivalenti dei refrain delle canzoni, se quelle degli ODP fossero normali canzoni. Fra cui ormai arcinote sono Kappler: "suo figlio signora ha la faccia come il culo…" , Tatranky: "… la fabbrica ! " e "ci hanno davvero preso tutto", praticamente tutta Robespierre,e  "bisogna avere stile anche nei momenti peggiori" su De Fonseca. C’è entusiasmo fra gli astanti, gli anthem vengono urlati dai più. Gli ODP non sono più pertinenza di una minuscola nicchia e non si può che compiacersene.  Gli annunciati 5 quarti d’ora scorrono via rapidi. Questa la fredda cronaca.

Poi dovrei starvi a tediare sui peli che mi si drizzano e sugli agghiaccianti scenari di desolazione da abbandono che si materializzano davanti agli occhi dell’intrepido cronista ogni volta che ascolta De Fonseca, di quelle che non saranno mai emozioni da poco per me, o dello stomaco tagliato a fette da Cioccolato IACP, che non avevo mai ascoltato. Meglio di no direi. Un rapido saluto a Max, il furto di un manifestino che arricchirà il mio parco arredamento casalingo e poi via, si ritorna al paisello. Offlaga Disco Pax: tutto il resto…beh, lo sapete anche da soli, via.

After Benty my sweet: di quella volta che ho salvato un concerto dei Julie’s Haircut

April 26th, 2006 | By benty in Senza categoria | 4 Comments »

I sassuolesi Julie’s Haircut hanno suonato al meritevole Thermos di Ancona venerdì scorso, ma ne scrivo solo oggi, causa conclamata pigrizia. Devo scriverne in quanto non ho solo assistito al concerto, ma ho addirittura dovuto dare una mano ai ragazzi, non proprio salendo sul palco , ma quasi. Adesso vi spiego, anzi dopo. Intanto va detto che mi sono piaciuti e pure parecchio nella nuova versione virata psychedelic. Più di quanto mi sarebbero piaciuti anni fa, immagino. Si presentano tonici e piuttosto intercambiabili agli strumenti (3 chitarre, basso, batteria, tastiere e moog e altre diavolerie a me ignote) davanti a un pubblico attento ma ingenerosamente scarso.  Pensavo che ci sarebbe stato il pienone, in un locale piccolino come il Thermos, per il concerto di una delle band capofila da anni dell’indieroccherolle made in Italy. Vabbè, c’era pure Beppe Grillo quella sera ad Ancona.

"I JH sono maturati" non si può più dire, perchè questa ovvietà era già stata spesa al tempo di Adult Situations (2003), giocando col titolo. Che però il loro suono sia cambiato si può dire, che non si sbaglia. Sono passati dal garage ruvido ma canticchiabile di Fever in the funk house, che me li aveva fatti conoscere qualcosa come sette anni fa, dopo altri due album, a un tipo di musica meno strutturato in forma di canzone, più complesso, rumoroso. Questi sono i JH 2006, quelli di After Dark, my Sweet: scorribande soniche, improvvisazioni oniriche, riff di chitarra in loop da cui partire per altre mete sonore, perse in territori quasi jazz (almeno come idea di fondo). Mogwaiano e post-rockoso a tratti, ancora meno Pavement e più Sonic Youth, se volete.

Infilano in scaletta anche una cover dei Can, che io dall’abisso della mia ignoranza musicale, nè so nominare, nè ricordo bene, nè sono riuscito a trovare su gugol, figuratevi. C’era una Laura che non era la Laura quella lì, ma bensì un’altra Laura. Io non lo sapevo, perchè era la prima volta che riuscivo a vederli dal vivo, e devo dire che mi è piaciuta anche la Laura di riserva. Inoltre al moog non c’era il Reverendo, bensì Andrea Rovacchi (co-produttore fra l’altro del loro esordio su album). Non mi hanno suonato Fish and Chips Brain che è da sempre la mia preferita, o Nuclear Core Blues, che è quella che suono di più al Kika. Ma il concerto mi è davvero piaciuto, più di quanto mi aspettassi. E poi è giunto il momento del mio storico esordio nel mondo dell’indierocherolle.

Verso la fine del concerto i JH stavano eseguendo un pezzo piuttosto noise del nuovo album (i titoli non li ho assimilati ancora, l’album l’ho comprato solo dopo il concerto) , che prevedeva l’utilizzo di un aggeggio dal funzionamento strano. Si trattava di una scatoletta maneggiata da Luca G, su cui si trovavano due pertugi. Maneggiando una specie di piccola torcia elettrica in direzione delle due aperture si otteneva un suono acuto e distorto, simile a quello di un theremin, i suoni che emetteva cambiavano di frequenza a seconda della intensità della luce e del calore, ovvero avvicinando, smuovendo, allontanando la fonte luminosa. Fattostà che il barbudos Luca, dopo lungo smanettare con il coso, scende dal palco ed offre al pubblico la torcia per cacciarne fuori rumori, nella coda jammata del pezzo. Ovviamente non mi sono potuto tirare indietro e ho partecipato, assieme ad altri, al rito collettivo. Ho rumoreggiato, dando un decisivo contributo alla riuscita del concerto. Devo dire che nel mio primo live me la sono più che cavata, e infatti a fine gig i ragazzi mi hanno chiesto se potevo seguirli in tour, per continuare a smanettare, che ci sarebbero state anche delle groupies pronte sul furgone. Ma ho dovuto declinare l’invito, che la Grecia fra un po’ m’aspetta, e ci sono gli esami. Mi è dispiaciuto deludere i simpatici indierocchers, sarà per un’altra volta.

Bisogna crederci

March 11th, 2006 | By benty in Senza categoria | 8 Comments »

Stasera suoneranno i  Fall da una parte e gli Echo and the Bunnymen dall’altra. Le solite genialate degli stronzissimi organizzatori di concerti greci. In settimana è passato Marc Almond. Solite bordate da trenta euri. Vabbè i Fall 22. Ormai manco ci faccio più caso, però non deglutisco amaro: ho deciso. Se il 20, 21, 22 e 23 luglio siete da quelle parti fate un fischio che ci si fa una birra insieme. Io nonostante la prevedibile bancarotta finanziaria, e a meno di catastrofi, ci sarò. A dare un’occhiata adesso ai miei conti in banca non si direbbe. Ma al limite ci ho i reni buoni e uno mi potrebbe bastare per il resto dei miei giorni.

Concerti che mi perdero’

February 6th, 2006 | By benty in Senza categoria | 10 Comments »

Sabato prossimo vengono i Liars. Poi tocchera’ di nuovo ai Violent Femmes, ai Sister of Mercy, agli Echo and the Bunnymen, si parla con insistenza anche di Xiu Xiu, Cat Power e altri due o tre gruppi che non ricordo. Forse gli Art Brut a maggio, ma sempre ad Atene. Confermatissimi per i primi di agosto i Depeche Mode, qui idolatrati – Salonicco vanta peraltro il fan club piu’ grande d’Europa – che in quel di Atene si esibiranno davanti a chi avra’ voglia di pagare 65 euro di biglietto. Molti da qui se ne andranno a vederli a Sofia: stessa distanza della capitale e biglietto a 25 euro. Questa categoria dovrebbe essere ribattezzata assenzialismi. Ricordo a chi si domandasse dell’utilita’ di questi post, che lo scopo della lista di concerti che non vedro’ e’ per il sottoscritto quello di tenere a mente tutti i concerti persi e rifarsi in estate con qualche megafestivalone.

update. forse fra quelli che mi concedero’ potrebbero esserci addirittura i TV Personalities. fingers crossed

John Cale a Salonicco. Una prece

January 21st, 2006 | By benty in Senza categoria | 9 Comments »

Non ho mai visto dal vivo i Nirvana, ma anni fa ebbi l’occasione di vedere su un palco Dave Grohl e i suoi perlopiù inutili Foo Fighters. Non ho mai visto dal vivo gli Husker Du, ma ieri sera ho visto Bob Mould, parecchio appesantito. Ha aperto il concerto di John Cale ieri sera al Mylos Apothiki. Da solo armato delle sue chitarre, elettriche e semiacustiche, ha mostrato classe e grinta, chiudendo il suo breve showcase con Make no sense at all. Dignità roccherolle, un bel modo di invecchiare per l’ex capoccia di un gruppo "seminale" come dicono quelli bravi.

Non ho mai visto i Velvet Underground, ma ho visto un paio di volte Lou Reed: una anni fa a Roma, a Enzimi, poco convincente. L’altra nel 2004 a Benicassim, eccellente: un grande Reed, fra classsici dei Velvet Underground riarrangiati, rumori bianchi, e soprattutto stile, stile, stile. E ieri sera ero convinto di vedere l’altra metà dell’anima velvettiana, quella tosta, John Cale. Ammetto che della carriera solistica di Cale non conoscevo nulla e ho commesso l’errore madornale di crearmi delle aspettative conformi alle produzioni dei VU. Mi immaginavo pezzi difficili, lunghi, viole straziate, musiche che richiedono concentrazione, roba da intellettuali insomma. Cale era quello uscito dal conservatorio il musicologo, mi dicevo. Quello che ha inoculato la vena avanguardistica, abrasiva e sperimentale nei Velvet, la viola – strumento classico – nel caos sonoro chitarristico, nella depravazione musicale urbana.  Il compositore timido,  e represso, l’incompreso, il reietto. Cale ha lavorato come produttore con Nick Drake, Patti Smith e Iggy Pop. Cage per dirla alla LCD soundsystem, non solo "was there" quando c’era la Factory di Warhol, Cale "was it". Insomma ero pronto ad approcciare un mito, uno che ha avuto un impatto sulla storia della musica moderna la cui portata capiremo forse fra qualche anno, ero la deferenza personificata, avevo tutte le migliori intenzioni. Ero emozionato e pronto.

L’arrivo al Mylos mi inquieta: c’è gente che fuma per le scale, qualcosa non va. Si viene a sapere poi anche dal palco che Mr Cale non gradisce che si fumi ai suoi concerti. I greci, popolo indisciplinato come pochi altri, lo ascoltano. Il rispetto per la figura è tale da sortire effetti che nemmeno multe potrebbero ambire ad ottenere. Però ci pensi alle interviste che hai letto, alle droghe di ogni tipo che alimentavano la macchina Velvet Underground, ma dici fra te e te, vabbè, ne è passato di tempo. Poi ci avvisano anche che Mr Cale,  lo stesso provocatore che decapitava polli sul palco, non gradisce i flash delle macchinette fotografiche. Di nuovo ci si interroga, ma ci si ripete come un mantra "Oh ma è John Cale, fanculo le sigarette e pure i flash".

Poi entra in scena. Si tratta di una fotocopia sciatta e ingrassata di Dustin Hoffmann, non ci piove. Ma imbraccia la viola e comincia a suonare e cantare Venus in Furs, si poteva iniziare meglio?

Si nota la gradevole presenza di un omino dotato di torcia, a fianco delle casse, che controlla il pubblico in cerca di qualcuno che fumi o rubi immagini con macchinette fotografiche o videocamere. Chi viene sorpreso in flagranza di reato viene puntato con la luce, rimproverato e additato al ludibrio davanti a tutti gli altri bambini spettatori. Converrete che non è proprio il genere di situazioni che ti fanno concentrare su un concerto a cui tenevi,e che ti aspettavi denso e intenso.

"Fortunatamente" non è che poi ci fossero ‘ste grandi atmosfere fitte a cui stare attenti e da cui lasciarsi trascinare. Oltre a Cale, che si destreggerà fra tastiere e chitarre (senza più toccare la viola) la band è composta da tre ragazzetti: un chitarrista con delle orecchie assolutamente spropositate, un bassista ricciolino, tipo attore di film porno tedesco anni 80, e un batterista negro, fichissimo e bravissimo. Dopo il primo brano, relativamente fedele all’originale, inanellano una serie di pezzi che è fin troppo facile etichettare come del tremendo hard rock. Aspetto in ogni momento che salti fuori Ritchie Blackmore a farci Smoke on the water. Una musica dozzinale, tamarra, banale, noiosa (tipo Sold Motel dall’ultimo Black Acetate).

Immediatamente al secondo pezzo Mr Cale si spazientisce, perchè aveva chiesto all’omino delle luci di spegnerne una che gli dava fastidio agli occhietti. La cosa non è avvenuta esattamente come desiderava, e lui, senza smettere di suonare, ha iniziato a intercalare con "Turn the fucking light off" e gesti scomposti la sua esecuzione, fra un chorus e un verse. O forse era davvero un verso della canzone e i gesti una coreografia minimalista. Comunque.

Il quinto pezzo è il lento e crudele omicidio di Femme fatale ("a couple of old songs rearranged", ci presenta Mr. Cale ilare). Ed è lì che finisce il mio concerto. La mia anima si dissocia dal mio corpo ed esce infastidita dal locale, anche se fisicamente resto lì ad amareggiarmi ancora e a far arredamento. Mi viene in mente che come occorrerebbe togliere la patente ai vecchietti dopo una certa età, per non farli andare in giro a far danni, così occorrerebbe fare coi musicisti in età da Alzheimer. Togliergli la possibilità di rovinare i loro stessi brani, evitando che deturpino bellezze musicali che hanno partorito in gioventù, oltre che le belle memorie o le belle cose che si sanno su di loro. Peggiora tutto Perfect, poppettino radiofriendly insulso, che credo sia addirittura il singolo. Non aiuta nemmeno la discreta Gravel con chitarra acustica, proposta in occasione delle striminzito (grazieaddio) bis. Verso la fine, prima di iniziare un pezzo, Mr. Cale a braccia conserte scruta fisso uno spettatore reo di fargli foto col cellulare. Poi gli chiede "What the fuck are you doing?", poi gli dice "Fuck you". La gente nemmeno fischia, perchè il locale, nel frattempo s’è mezzo svuotato. La ciliegina sulla torta direi. Prima di andare via fa ancora in tempo a lamentarsi del caldo che fa sul palco. Considero che con i soliti stracazzo di tenta euri mi sono visto Cale, un pezzo enorme di storia della musica, un mentore dall’influenza incalcolabile per una marea di band dagli anni 70 in poi. Il quale è incidentalmente un nonnetto indisponente, maleducato, insofferente e capriccioso. E come se non bastasse suona musica di merda in una una cover band dei Deep Purple. Cale ebbe a dichiarare riguardo ai VU "Il nostro scopo era mettere a disagio gli spettatori, farli sentire fuori posto, farli vomitare". Ancora una volta missione compiuta Mr. Cale. Il provocatore, ha vinto di nuovo. Me ne vado dal Mylos irritato e scontroso. Aridatece gli Steppenwolf.

(Veronica, perdono)

Five Star Hotel

January 14th, 2006 | By benty in Senza categoria | 6 Comments »

Il primo concerto della stagione 2006 mi vede di fronte a un gruppo greco che canta in inglese, i Five Stars Hotel. Nome del cacchio, ne convengo, e temo pure non grammaticalmente ineccepibile. Sono in piedi da qualche anno, hanno fatto da support ai Six by Seven e alle Electrelane qui a Salonicco, i loro pezzi passano nelle radio dedite a del buon indie-pop-rock, quindi non è che siano gli ultimi arrivati. I componenti hanno suonato in passato in svariate altre formazioni cittadine, anche relativamente di successo (Morà sti fotià) non sono musicisti di primo pelo, l’età media è sulla trentina. Non hanno ancora all’attivo nessun album, ma vari ep. L’ultimo è stato presentato ieri, con uno show-case presso lo Xilurgeio (vi hanno suonato fra gli altri Arab Strap e Giardini di Mirò). Mi avevano fatto una buona impressione nei sei o sette pezzi suonati prima delle mie beniamine, e quindi ho deciso di tornare a vederli appositamente ieri sera.

Si compongono di cantante frangettato, decisamente dedito alle birre a giudicare dal ventre prominente che stona con una corporatura media. E notoriamente le magliette a righe orizzontali non sfinano. Egli si cimenta alle tastiere, e al tamborine, con fare assai svogliato e giacca appena spillettata. Occorre ammettere che ha una gran voce, e una pronuncia inglese assolutamente impeccabile. Ogni tanto indulge in dei gorgheggi parecchio morrisseyani, troppo riconoscibili per passare inosservati. Poi c’è il chitarrista, fuma come un camino, suda come un cammello. La presenza del suo strumento è discreta, non strafà, nè con gli assolo nè con i  volumi, il suo lavoro lo fa bene, e nei tre quattro pezzi in cui c’è da farsi sentire si sente; il ruolo rispetto alle keyboards è nettamente secondario insomma, ma ben assolto. Poi c’è il synth a sinistra, suonato da un biondino magro, dinoccolato e ciuffoso, spesso impegnato come seconda voce e a spennellare il tutto con dei tocchi di elettronica null’affatto invadenti. Poi da qualche parte ci doveva essere il bassista, ma io l’ho solo sentito, perchè probabilmente si celava dietro la mole del cantante, gran macinatore di giri semplici e parecchio "catchy". Insieme all’ottima batteria direi che pestano il giusto, i pezzi partono quasi sempre dalla sezione ritmica. Riascoltandoli mi accorgo che hanno un certo qual tiro, con almeno la metà dei brani che potrebbero candidarsi tranquillamente al dancefloor, visto che ultimamente nel mondo si balla pure il roccherolle; in precedenza mi era sfuggito questo dettaglio della ballabilità, ma poi a ripensarci qui in Grecia non si balla affatto il roccherolle, quindi non è che li aiuterà a vendere più copie.

Veniamo alla musica. I FSH suonano un pop di stampo chiaramente britannico, debitore tanto ai Pulp e ai New Order almeno quanto agli Smiths. La presenza delle due tastiere spesso tira in causa gli Stereolab (anche quelli di French Disco, ma non solo) di cui campeggiano anche adesivi sugli strumenti. Le melodie non sono affatto banali, i ritornelli si lasciano canticchiare, i testi non puntano troppo in alto ma non sembrano neanche delle porcate invereconde, il tutto avvolto in tinte piuttosto malinconiche e scure, senza sconfinare però nel goth. Cioè i Cure devi proprio sforzarti di sentirceli, ma forse in qualche brano, qua e là spuntano pure loro, se ci fai caso. Come dicevo sopra, parecchi pezzi sono caratterizzati ritmi addirittura ballabili, e gli inserti di elettronica sono piazzati al punto giusto, disseminati nella maggior parte delle canzoni. I punti dolenti sono una presenza scenica nulla, se non irritante a volte. Il carisma il cantante ce l’avrebbe pure, ma si muove zero, dà spesso le spalle al pubblico (che ieri sera era sorprendentemente nutritissimo, ma composto perlopiù da conoscenti/conosciuti), indulge troppo in dialoghi e pagliacciate con gli amichetti della prima fila, non coinvolge. Tutti gli altri musici restano invece al loro posto e fanno il loro porco dovere. Altra nota negativa la monotonicità di almeno 4 pezzi piazzati a metà concerto, che hanno fatto sprofondare tutti in uno stato comatoso, dal quale poi riprendersi è stato piuttosto difficoltoso, nonostante l’innalzamento del ritmo.  L’ultima accettata la riservo per il singolo scelto per il lancio dell’album di uscita prossima, This is the night, deboluccio ai primi ascolti, sfigura anche davanti alle canzoni proposte ad inizio concerto. Simpatica e discretamente riuscita la cover delle Shirelles, Be my girl, carinissima la confezione metallica rotonda del cd.

Avrete capito che non c’è nulla di particolarmente originale nella loro musica, ma per la Grecia un gruppo così, di spiccata attitudine indipendente, senza per forza dover suonare punk o pseudo garage, è una bella novità. Gente che si può permettere di suonare in giacca, di far muovere qualche culo, gente che di britpop (nell’accezione migliore del termine, scordatevi gli Oasis) ne ha masticato a sufficienza, musiche che rimandano volentieri ai migliori ottanta e a volte (certe tastierine sooooo vintage) pure più indietro. Quindi questo blog, nonostante i ragazzotti non siano nè amici nè parenti, decide coraggiosamete di supportarli e di sottoporre al vostro augusto e severo giudizio le tre tracce dell’ep,a mio avviso – ripeto – poco rappresentative della qualità media dei brani ascoltati. Ovviamente qui. Fatemi sapere se vi piacciono, oppure no.

(venerdì prossimo John Cale e Bob Mould)

Panagiotis e i Grovers

November 16th, 2005 | By benty in Senza categoria | 5 Comments »

Panagiotis è il proprietario del Kika, il bar dove metto musica il sabato sera, quasi da un paio di mesi. E’ basso, si veste da giovane nonostante sia vicinissimo alla quarantina ma riesce a non essere patetico, ha una testa spropositatamente grande per quel corpo e delle basette biasimevoli. Beve con continuità impressionante. E’ un eclettico ascoltatore e appassionato di musica. Io, da alcuni personaggi che circolano al bar, mi sono fatto l’idea che sotto ci dev’essere qualche traffico losco. Non c’è verso che si possa pagare un affitto in centro, per quanto microscopico il bar possa essere, quando per i cinque mesi estivi hai al bar tre persone, di cui due tuoi amici a cui offri la metà delle bevute. Non sono pochi i momenti in cui sparisce nel retrobottega con qualche sconosciuto e torna parecchio più allegro e in forma di quando vi era entrato. Ma queste sono solo congetture. Della vita segreta di Panagiotis ho scoperto qualcosa la settimana scorsa: ha una band, i Grovers. Quando gli ho chiesto che musica facessero mi ha risposto garage-punk. Sapendolo grande fan degli Stiff little fingers e dei Sonics la cosa mi aveva confortato  Simultaneamente mi informava che i Grovers avrebbero suonato il lunedì successivo. Un misto fra curiosità e piaggeria mi ha trascinato dunque ieri sera all’Idrogeio per vederlo all’opera.

Quando arrivo suonano i 77, un gruppo che vorrebbe essere i Tool ma con il violino. Grazie a Dio assisto solo alle ultime due canzoni. Fra i volti noti e meno noti incrocio una delle ragazze che lavora come segretaria a scuola, Alexandra. Donna tatuata che ispira simpatia a pochissima gente e che ha un’altissima concezione di sè stessa come intenditrice di musica. In realtà s’è fermata ai Depeche Mode. Mi informa che i Grovers sono un nome storico dell’underground cittadino. Non volevo infierire sul concetto di underground greco, ed ho annuito. La popolazione dell’Idrogeio è spaventosa e sorprendentemente numerosa. Si tratta di un coacervo di punk, punkabbestia, metallari, skinheads, e perfino qualche darkettone. Il tratto che li accomuna era un’atteggiamento minaccioso: più di uno ha desunto ascolti riprovevoli dal mio abbigliamento normale (e lì dentro assolutamente controcorrente) e mi ha guardato storto. Poco prima dell’inizio del concerto si sentono parecchi rumori di bottiglie, spaccate a terra. Mi spiega Evgenia, una delle cameriere del Kika, che "Sono punk, vogliono spaccare tutto".  Lo dice con certa preoccupante partecipazione emotiva. I camerieri del Kika ovviamente ci sono tutti, credo pena licenziamento. Ma non sono fuori luogo come me, anzi sembra non essere il primo concerto dei Grovers per loro, e sembrano felici di esserci e di sostenere il loro capo.

Panagiotis esce sul palco evidentemente ubriaco, i Grovers partono con quello che io suppongo uno dei loro cavalli di battaglia, visto che le parole le sanno in molti, tutti quelli davanti. Mi sbagliavo. Lo zoccolo duro dei fans conosce tutte le parole di tutte le canzoni, credo suonino una specie di best of. I pezzi hanno un ritmo flaccido, ma lo stesso spingono quegli scarti della società a pogare e fare stage diving manco avessero davanti una cover band dei Ramones.

I Grovers si compongono di un basso, tre chitarre di cui una corredata da chitarrista con pantaloni di pelle, e due chitarristi su tre capellonissimi, ben oltre i quaranta. Il batterista lo vedo poco, verso la fine del concerto mi accorgo di un altro capellone che suona le tastiere, udubili solo in un pezzo. E poi c’è Panagiotis, il frontman. Canta in greco, per quasi tutto il concerto a occhi chiusi, incita la folla che lo segue in uno stato di esaltazione non condiviso dalla maggior parte degli astanti. Si spara dell pose da punk indegne, si sgola davanti a quel microfono. Non ha voce, endemicamente, nemmeno quando parla. Ma quelli lì davanti sono ipercinetici, si tirano addosso birre che è un piacere, si scaraventano felici l’uno addosso all’altro, sono in stato estatico davanti alla band del mio capo, invadono il palco a più riprese, manco fossero gli Stooges. Un quarantenne piuttosto sfigato che esalta dei ventenni parecchio sfigati, penso. In realtà un po’ lo invidio Panagiotis, uno che le sue passioni (bicchiere e roccherolle) se le tiene strette, nonostante gli anni passino. E lo fa con discreto successo locale occorre dire per amor d’onestà.

Che musica fanno i Grovers? Beh, un misto malriuscito di rock che ricorda dei Guns & Roses sotto botta, una cosa che vorrebbe somigliare al punk, ma non c’è verso che quei quarantenni impresentabili sul palco riescano ad avvicinarsi nemmeno alla metà del ritmo e delle chitarre distorte che occorrerebbero. A tratti emergono delle venature metal che consentono ai tre inutili chitarristi capelloni di esibirsi in assoli che col punk ci dicono male. Una musica ecumenica, capace di inglobare tante influenze una peggio dell’altra, mischiarle male e riproporle peggio. Col merito di fare stare assieme felici sotto un palco metallari capelloni, punk crestati, skin col bomber, dark e camerieri del Kika. Potrei tranquillamente definirla una musica di merda.

Il siparietto finale mi vede soccorrere metà dei camerieri, che per un pelo non sono stati coinvolti in una rissa con dei punk in evidente cerca di rogne. Sedare risse fra punk e camerieri, un’ottimo diversivo per il lunedì sera, penso.

Electrelane, that’s ammore

November 6th, 2005 | By benty in Senza categoria | 9 Comments »

Care Electrelane

Sono un vostro piccolo fan di appena 32 anni, che per un destino cinico e baro si trova a vivere a Salonicco, e non a Brighton a qualche isolato da casa vostra, come avrebbe voluto. Intanto volevo ringraziarvi di essere tornate qui dopo un anno e mezzo , mi eravate mancate, davvero. Io vi voglio bene, lo sapete. Poi volevo ringraziarvi anche per Axes, cosa che avrei dovuto forse fare prima, ma per fortuna c’è un sacco di gente più brava di me a scrivere di dischi che ci ha pensato come meglio non avrei potuto. Quando l’ho visto sullo scaffale, nello scorso giugno, mi sono limitato a comprarlo, senza prima aver letto quasi nulla. Un atto di fede, dopo la folgorazione dell’anno scorso. Ricompensato da un disco non facile, meno immediato di The power out, non solo per la mancanza dei testi nella maggior parte dei brani. Ma a me piace il rumore, e anche i suoni poco dritti, sennò non sarei un vostro piccolo fans. Un disco splendidamente complesso e scuro Axes. Poi volevo chiedervi scusa. Intanto per Kostas, che l’anno scorso era con me e ieri invece è stato costretto ad accompagnare la moglie al concerto degli gli A-ha. Però sono contento che certe cose vengano fuori, così mi do ragione da solo a rimanere felicemente single. Non divaghiamo. Volevo chiedervi scusa perchè a Benicassim nel 2004 non sono riuscito a vedere tutto il vostro set, che non avevo la compagnia idonea, ma il solo avervi visto – seppure da lontano – è stato un tuffo al cuore. Poi volevo chiedervi scusa per quello che ieri sera prima del vostro concerto ha risposto alla domanda del cantante del gruppo d’apertura (i 5 stars hotel, greci e sorprendentemente bravi) che chiedeva se dovessero smontare da soli la strumentazione. Uno dalla folla ha urlato "Lascia che questo lavoro lo facciano i maschi", riferendosi a voi e alle vostre presunte attitudini sessuali. Si è scatenata l’ilarità generale. Vabbè era una battuta. Di pessimo gusto, e avete ragione in pieno quando parlate di sessismo. Infine volevo chiedervi scusa per essermene andato prima degli encore, ma non siate severe con me, aver perso On Parade dal vivo è già una tremenda punizione. Purtroppo il sabato sera lavoro come dj, fra le mie mansioni c’è anche quella di condividere il piacere della vostra musica con quanti si vengono a bere una birra, e lo faccio sempre, ci mancherebbe altro. 

Ho visto un’oretta di concerto e ne sono uscito gongolante di gioia. Avrei voluto invitarvi a casa mia a fare due spaghi dopo, volevo stare ancora un po’ con voi, ero felice, volevo abbracciarvi proprio, se non fosse stato un gesto troppo da Benigni. Avete cominciato con One two three lots, e poi Bells, proprio come su Axes.  Avete un tiro dal vivo che mette spavento, soprattutto Emma vi trasforma sul palco, diventate adorabilmente toste, fate rumore, mi piacete tanto tanto tanto, come direbbe quello. Mi piace il ritmo crescente della maggior parte dei pezzi che cominciano ipnotici e poi accelerano, si induriscono, deflagrano, pistano. Come in Those pockets are people o in Two for Joy, che quando esplodono le chitarre mi viene da fare un headbanging selvaggio che però reprimo e resta interno, che eravamo davvero troppi ieri sera allo Xilourgeio. Ecco magari la prossima volta ci organizziamo meglio si fa una cosetta per pochi, tipo anche a casa mia eh? In mezzo ai nuovi pezzi di Axes avete infilato come perline i brani di The power out ( Birds, This Deed, Gone under the sea,Take a bit…) accolti sempre da un gridolino di gioia del pubblico pagante. Adoro anche l’attitudine misurata che avete on stage, sembrate non farvi sopraffare dall’energia che rilasciate in suoni, a parte la trance di Mia che suona a occhi chiusi, e Verity che a volte sembra trasformarsi in cugino It. La cover di Coehn, the Partisan, è stata resa dal vivo in maniera magistrale, parecchio meglio che su cd, fragorosa, feroce, eccellente. Voi siete post punk, vero? O new wave? O kraut art rock? O noise? Voi siete le nuove Sonic Youth, i nuovi Neu! o i nuovi Stereolab? E’ così che leggo in giro. Possono definirvi anche le nuove Lollipop, per me restate detentrici del titolo di miglior band femminile sulla faccia della terra. Titolo che vi verrà consegnato da me e Marina in persona. La cosa che mi ha più colpito ieri sera è realizzare quanto in un anno vi siate affiatate, e quanto il vostro suono stia diventando sempre più vostro, particolare, definito, riconoscibile. Il fatto che Axes vi allontanerà le favori del grande pubblico, mi fa anche piacere, così per una volta pure io posso fare lo snob che gli piacciono solo quelli sconosciuti o quasi. Che poi sconosciute non lo siete, visto che avete anche una pagina su Wiki .

In realtà questa è una lettera d’amore. Io vorrei adottarvi, perchè qui non ho una famiglia. Vorrei Verity come sorella maggiore saggia, colta e cool al contempo, Emma come sorellina minore, dolce, indie e caciarona. Ros a te ti conosco poco, che l’anno scorso c’era Rachel, (Ros e Rachel?) comunque sembri simpatica, potremmo anche essere amici, al limite una cugina. Adesso dovrei chiedervi il favore di lasciarmi un po’ solo con Mia, perchè le vorrei parlare in privato. Si, capisco che un blog non è il luogo più adatto, ma cercate di capirmi.

Cara Mia

tu mi hai spezzato il cuoricino con la tua faccia da bambola e il sorriso timido. Covo questa passione dall’anno scorso, dalla celebre performance senza reggiseno, e non posso più nascondermi. Io ti amo, vorrei sposarti e vivere per sempre con te, ecco l’ho detto. Si lo so, è un po’ prematuro, ma io intanto ho già pensato ai nomi da dare ai nostri figli, un paio sono addirittura negoziabili. Abbiamo così tante cose in comune Mia, te ne devi convincere, ti renderò una donna felice. Pensa che bello, andremo in tour e ti terrò i piccoli a bordo palco, sciogliendomi in sguardi di ammirazione e sospiri d’amore. Oppure ti farò diventare insegnante di inglese nella mia scuola tra un tour e l’altro, che ne dici? Ho letto che scrivi e che fai la dj. Anch’io scrivo, ho un blog , pensa. E anche io metto i dischi un bar proprio come te . Solo che tu lo fai a NY e io in una città appena meno a la page. Ah e poi a casa ci ho pure la chitarra elettrica e pure a me piace farci rumore. Si in effetti è perchè non so farci altro. Però vedi Mia, quante cose in comune? Lo vedi che siamo fatti l’una per l’altro? Ti sembrano coincidenze? Ti sembro adolescenziale? Solo per quella scritta "MIA I LUV U" davanti all’hotel? Ti sembro ossessivo? Solo per le minacce di morte settimanali che mi diverto a rinnovare alla famiglia di Amanda Moore? Ieri, quando tutta sudata e spettinata macinavi riff in accelerazione, senza scomporti troppo, ho cercato i tuoi occhi per vedere se anche tu mi amavi. Poi hai suonato per sbaglio l’attacco di Atom’s Tome,  Verity ti ha guardata storta, ti sei fermata, che c’era un altro pezzo in scaletta. Ed è stato lì che mi hai sorriso arrossendo, ne sono certo. Ormai ho capito che mi ami anche tu. Quando ti sentirai pronta fammi sapere che prenoto le fedi e la chiesa. Si, Verity può farti da testimone, se è così che desideri. Alle bomboniere pensaci tu.

tuo Benty

Ian Brown a Salonicco

October 22nd, 2005 | By benty in Senza categoria | 3 Comments »

Ian Brown è un tamarro. Questo va detto subito a scanso di equivoci. Niente a che vedere con i fighetti impomatati e incravattati che vanno di moda adesso. Ci si presenta con dei pantaloni a cavallo basso, felpa con caratteri tribali, giacchetto di pelle. Capelli come vanno di moda a Tirana, faccia con un non so che di pasoliniano. Working class mancuniana, a partire dai lineamenti.

Il britpop da queste parti, nei remoti anni 90, ha spopolato, molto più che il grunge. Stone Roses, Happy Mondays e Charlatans erano gruppi largamente popolari in Grecia, a loro tempo. Il fatto è che parecchi greci delle mia età in quel periodo se ne stavano in Inghilterra a studiare, e l’epopea di Madchester se la sono vissuta in loco. Quindi Ian Brown qui è un nome che ancora infiamma i cuori. Il mio di meno. L’ibrido di dance e pop non mi ha mai convinto in questi termini, se si eccettuano alcune canzoni meritevoli. Però la penuria concertistica salonicchese di questo inverno mi costringe a presenziare anche quando potrei farne benissimo a meno.

Della sua carriera solista ingnoro, non mi sono neanche dato la pena di cercare qualcosa su internet. Ma è chiaro che non sono il solo, la gente è lì per sentire qualche pezzo degli Stone Roses e quindi ci si ritrova (di nuovo!) a un concerto per reduci. Essendo questo un tema ricorrente, mi verrebbe da azzardare un parallelismo col campionato di calcio greco, dove vengono parcheggiati gli scarti e i giocatori finiti degli altri campionati, ma mi astengo dall’ardita metafora calcistica. Ian Brown come Rivaldo all’Olimpiakos, mi pare davvero irriverente. Verso il glorioso passato di Rivaldo.

Ian Brown sul palco ci sa stare, ma a me non piace affatto come ci sta. E’ tutto frenetico, balla sempre, prende in giro il pubblico, è tutto mossetine, ammiccamenti, pose, insiste col greco ma quando parla col suo cacchio di british non si capisce una fava, continuamente si avvicina a dialogare col pubblico, indulge in varie ruffianate, fa addirittura il mimo con la faccia schiacciata sul vetro, prende un cellulare da un fan in prima fila e ci giochicchia, sputa,  invita tre ragazzine inglesi a cui prima aveva ceduto il microfono nei camerini, si insaliva le sopracciglia, si riempie la bocca d’acqua e poi la schizza sul pubblico. Davvero troppo per i miei gusti.

Già il malumore mi attanagliava dopo che mi avevano chiesto DODICIMILALIRE  per una stracazzo di birra. E poi al Mylos-apothiki Il suono fa schifo, lui stona a più riprese, la scaletta è maldistribuita: partono forte, con tre pezzi degli Stone Roses, I wanna be adored, Made of stone, e Waterfall. A quel punto si sarebbe potuto tornare a casa tranquillamente, e ci saremmo risparmiati, oltre ad un’altra ora e qualcosetta di noia, una orrenda cover dei Sex Pistols e tre inutili encore da una canzone l’uno. E’ musica in cui il ritmo si mantiene basso e costante, ed è cantata in maniera monocorde, alla lunga stufa. Trenta euro non se li meritava.

Quindi mi tocca amaramente concludere che oggi sono parecchio meglio i fighetti incravattati  – anche se scopiazzano-  che i tamarri un tempo originali.

Motivi di gioia della serata alcune conferme sui concerti che si terranno a Salonicco da qui a dicembre: a parte gli A-ha, ci saranno i Mercury Rev, i Cake, i Deus (che probabilmente non riuscirò a vedere), i Mission, e soprattutto torneranno a trovarmi quelle belle gioie delle Electrelane.