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Morrissey a Salonicco (I will see you – magari fino alla fine – in a far off place)

November 28th, 2006 | By benty in Senza categoria | 9 Comments »

I più anziani lettori di questo blog ricorderanno che a suo tempo provai a vedere Morrissey sul palco. Ci ero arrivato fino a Benicassim, anni fa, e Zio Ciuffo mi diede buca a due ore dall’inizio del concerto, senza scuse. Ma lui è un po’ così, si sa. Mi rassegnai pensando "Verrà un giorno che sentirò There is a light that never goes out dal vivo, dalla tua voce, oh sommo Patrick Steven". Quel giorno era – in via del tutto teorica – ieri sera.

La notizia circolava da mesi, Morrissey a Salonicco. Appena confermata la data ci siamo fiondati a prendere i biglietti, ché il concerto sarebbe stato un prevedibile sold out nonostante i 45 euri (quarantacinque = novantamila lire del vecchio conio cit. Bonolis) di biglietto. Cancello e anticipo le lezioni odierne (con ulteriore aggravio dei costi personali, non per buttarla sempre sull’economico eh, ma per Morrissey non baderò a spese, mi dico), vado a prendere la mia bella a casa e partiamo entusiasti verso il Principal.

Il Principal è un locale a soli 19 chilometri di comodo sterrato da Salonicco, e per conoscere le indicazioni esatte su come arrivarci occorre essere iscritti a una loggia massonica. Però è un posto ideale per concerti del genere, raccolto e con una discreta acustica. Il muro umano in platea è compatto mentre suona ancora il gruppo di supporto, ovvero Kristeen Young, di cui non so nulla. Lei vestita di tulle argentata e tacchi alti alle tastiere moleste e synth, lui batterista nerboruto. Interessanti, aggressivi e piacevolmente scombinati, un po’ Dresden Dolls, ma più arcigno come stile.

Mentre preparano la strumentazione e il palco per Moz, proiettano su un grande schermo dei video video, non so se scelti da Morrissey in persona o in ordine random, che hanno il pregio di spaziare dai NY Dolls a Gigliola Cinquetti (tutto vero).

Poi arriva Morrissey. Completo nero e cravatta quasi fucsia. Arringa la folla prima di iniziare urlando "Vassanistirio, Vassanistirio Vassanistirio !!!" (dal greco "tormento") e attacca con Panic. Nonostante gli acciacchi che mi merito, se alla mia età ancora mi ostino a cimentarmi contro dei diciottenni nel giouco del calcetto la domenica sera, comincio a saltare perdendo il controllo e il contegno.

Patrick Steven Morrissey, ex cantante di un certo gruppo che tanto ci piace ancora, è in gran forma. Teatrale più che mai, giganteggia su un palco che sembra piccolissimo e su cui si muove sicuro e piacione. Fa linguacce, si sbottona la camicia mostrando come suo usuale vezzo il petto, stringe mani alle prime file in deliquio, fa il crooner e un po’ il rocker, usa il cavo del microfono a mo di frusta, sale sulle casse spia in equilibrio precario. Noi siamo in alto, defilati sulla destra, ma sembra di vederlo negli occhi da quanto siamo vicini. La folla saltellante e infoiata non fa a tempo a finire di urlare Hang the dj, mentre lui si sfila la cravatta, che già è partita First of the gang to die, scatenando un’altra ovazione e una cantata di ritornello collettiva.

Fra un pezzo e l’altro parla col pubblico chiedendogli che canzone si aspettano, e si rivela pure notevole entertainer. "Quando sono arrivato nella vostra splendida città non ho potuto fare a meno di notare che c’erano molti manifesti affissi che pubblicizzavano questa serata. Quando mi sono accorto che il mio nome era stato scritto in modo sbagliato (è vero, in tutti i manifesti e pure nei biglietti-ormai-cimelio hanno scritto Morrisey, con una esse sola ndB) devo confessare che ho pianto. E devo dire che mi è dispiaciuto anche perchè invece lo spelling dei Kaiser Chiefs era giusto" (i Kaiser Chiefs suoneranno nello stesso locale fra due giorni e ci sono altrettanti manifesti in giro per Salonicco a reclamizzare ndB).

Terzo pezzo The youngest was the most loved, poi You have killed me, il pubblico è in estasi o almeno io lo sono, sorpreso da un inizio così tirato. Chissà che ci aspetta per il finale, pregusto ottimista. Ad Atene hanno fatto parecchi pezzi degli Smiths, si vocifera. La band, completamente vestita di bianco con tanto di giacca, pesta parecchio, si fanno sentire le due chitarre, ma i quattro componenti del Morrissey group, presentati sin dal secondo o terzo pezzo, restano quasi sempre defilati, ché la scena va lasciata al re nerovestito. Che ci delizia con Everyday is like sunday, poi con Let me kiss you su cui parte la camicia nera verso le prime file lasciando Moz a torso nudo nel boato del pubblico generosamente pagante. Poi si cambia (camicia blu stile forzitalia) e ci fa anche Disappointed, Ganglord, poi I’ve changed my plead to guilt, poi (momento altamente godurioso per il sottoscritto) William it was really nothing.

Quando inizia I will see you in a far off place, con fragori di chitarre che manco i Metallica, la mia ragazza vacilla. Sarà il caldo, sarà il fumo, sarà l’emozione, sarà spirito d’emulazione verso altri malori recenti più celebri, sarà il fato. Vado a prenderle un po’ d’acqua ma non ce la facciamo proprio a rimanere, che decisamente non sta bene la ragazza. Decidiamo affranti di andarcene dopo un’ora di concerto. Conforta sapere che alla fine Moz nemmeno l’ha cantata There is a light that never goes out, così non mi resta manco il rimpiantino. La precoce dipartita dal locale assume a posteriori un risvolto inquietante, in particolare quando ho realizzato che siamo usciti proprio mentre il beffardo Morrissey ci cantava "Girlfriend in a coma I know, i know it is serious"

setlist intera qui

Pulp nights, una storia a orologeria

November 18th, 2006 | By benty in Senza categoria | 8 Comments »

Prima, quando ancora lavoravo solo al Kika, ci fu una trattativa serrata, a base di lusinghe economiche. Io ho sempre troppo pudore a chiedere soldi per mettere i dischi. Dico sempre che non c’è problema, poi ci si mette d’accordo. ‘Sta cosa che mi pagano per girare dischi e mi fanno pure bere gratis non smette ancora di stupirmi dopo tanti anni. Ma fu Ritis in persona, (abbreviazione di Margaritis letteralmente Margherito, magia dei nomi greci ndB) il capo del Pulp, a suo tempo boss del Casablanca a insistere per strapparmi alla concorrenza. Mi voleva lì il sabato, cercava qualcuno che suonasse proprio quel certo tipo di musica, diceva che avremmo fatto grandi cose insieme (non vi ricorda niente, oh miei fedeli lettori?). E così fu. Convinsi il padrone del Kika a farmi spostare la serata al venerdì, il che comportò inizialmente una dominuzione dei clienti ai miei set, e successivamente  un conseguente ridimensionamento degli emolumenti. Va be’, se tanto vado a guadagnarne in totale il doppio si può anche accettare. Questo pensai, ingordo e avido che non ero altro. Ed ecco a voi le mie Pulp night,  serate a tiratura limitata.

Numero uno

Un esordio così deserto non si era mai visto. Imbarazzo palpabile, addirittura incoraggiamenti del proprietario a fine serata. "Il bar è nuovo, la gente deve ancora conoscerlo. Vedrai verranno, ma tu non buttarti giù, mi raccomando, non penserai mica che sia colpa tua?". Questo egli mi disse. Confortante.

Numero due

Nonostante l’opera di moderato martellamento mediatico via sms del diggei in apprensione agli amici più fidati, pressochè nessuno si presentò neppure il sabato successivo al debutto. Solita clientela minimale, ovvero quellli fissi, che poi non sono diversi da quei loser del Casablanca, semplicemente trasposti in centro. Il capo ancora infonde coraggio e paga, la mia fidanzata appena giunta dall’Italia appassisce di sonno per tutta la sera al bancone, sorseggiando paziente il Porto più cotoso della storia del Portogallo. Non basta dedicarle canzoni su canzoni a evitare i suoi sbadigli. Eroica.

Numero tre

Di mio porto un paio di ex studentesse, che si presentano senza nemmeno una compagnia a supportarle e consumare superalcolici a bancone, per giustificare il mio stipendio d’oro. Per il resto l’usuale desolazione. Il bar proprio non tira. Sarà l’arredamento da bordello di inizio secolo, penso ignaro. Iniziano a circolare voci che i venerdì il locale sia invece strapieno e ci si diverta da matti fra balli, orge e sacrifici di vergini fino alle sette di mattina. Non me ne capacito, ogni volta che ci passo davanti sembra semivuoto. Puntuali come la morte arrivano le prime lamentele per dieci minuti di ritardo all’arrivo ( a bar ancora praticamente chiuso) e a seguire una qual certa diminuzione di calorosità nei saluti di arrivederci. Inquietante. A fine serata (si finisce un sacco presto al Pulp, non essendoci clientela) di solito me ne vado al Kika per rassicurarmi che almeno lì il sabato, ovvero quando non ci suono, non succeda il finimondo. Nella mia testa significherebbe che allora se non c’è gente è tutta colpa mia e della mia musica. Capro espiatorio.

Numero quattro

La svolta. Una mia amica decide di organizzare la sua festa di compleanno proprio al Pulp, sapendo che ci sarò io a suonare. Quindi riempio il locale praticamente da solo, di gente che si diverte, balla, canta e soprattutto beve. Il volto del capo che mi sembrava scurirsi nelle ultime settimane di tristezza, torna ad illuminarsi, i clienti fissi di solito moscissimi iniziano a sorridere, gli sfinnakia a scorrere, le cose a girare per il verso giusto, le caprette ci fanno ciao. Addirittura dietro il bancone si accennano passi di danza, le cameriere sospirano canticchiando i Cure e Ritis, il capo chiamato Margherito, diviene un fiore d’uomo (battuta a cura del FNBS, fronte nazionale della battuta scontata), ed elogia apertamente l’operato del bravo diggei che fa danzare i simpatici clienti. Incantevole. 

Numero cinque

Il boss manca, è in viaggio in Germania, ricomincia l’abituale latitanza di avventori. Mi ritrovo con la barista, sua amica con diritto* e la cameriera. La desolazione è tale che la cameriera inizia a raccontarmi barzellette per far passare il tempo. Purtroppo non sono mai stato bravo a sfoderare risate finte, ma faccio del mio meglio. A un certo punto il bar è così vuoto che ho l’impressione che se ne sia andato pure il personale. Verso le tre si popola. Prima due ragazze. Poi altre due. Poi altre due. Poi ovviamente basta. Nel locale ci siamo io e otto donne per cui metto musica. Felliniano.

Numero sei

Prima del sabato numero sei occorre menzionare che vengo in settimana contattato dal capo di ritorno dalla trasferta tedesca, via sms. Mi fa "Appena puoi passa dal locale che dobbiamo parlare". Lo chiamo e lui nicchia, "Dobbiamo parlare", insiste. "Eh ma infatti ti ho chiamato, parlare è una di quelle cose che si può fare anche al telefono", dico io che manco per il cazzo ci voglio passare durante la settimana e odoro puzza di bruciato. "No dai passa". Evabbè. "Ma non ti allarmare, è solo una discussione per fare il punto della situazione che sto avendo con tutti i dj che suonano qui, niente di che". Se lo dici tu. Fattostà che una sera ci passo, il locale alle due meno un quarto sta già miseramente chiudendo, gli sgabelli giacciono già rassegnati sopra il bancone. E lui mi fa "Senti, le cose non vanno mica tanto bene. (ah si? credevo che ambissi a mantenere il locale vuoto seguendo le ultime tendenze newyorkesi, in cui i bar trendy sono quelli deserti e tristi ndB) Mi aspettavo che mi portassi almeno quattro o cinque persone fisse il sabato, con tutta la gente che conosci, con tutti gli studenti che hai, con tutti quelli che portavi al Kika. E invece i sabati in cui suoni tu abbiamo fatto i peggiori incassi da quando abbiamo cominciato. Tutti gli altri dj mi portano i loro gruppi di amici, qui il venerdì si finisce sempre le sei di mattina. Io ti pago più di tutti gli altri, io ho creduto in te (non vi ricorda proprio niente, oh miei fedeli lettori?), quando ti ho preso credevo fossi il Ronaldinho dei dj (testuale ndr) e invece … Con questo non voglio dire che sia colpa tua, per carità, ma non ci rientro con le spese con quello che ti pago. Adesso vediamo ancora un po’ come va, ma bisogna che ti dai da fare a portar clienti, se le cose non migliorano bisogna trovare una soluzione". A nulla valgono i miei tentativi di autodifesa che si appoggiano su argomentazioni inattaccabili quali: i miei amici te li ho portati l’altra volta, la gente è strana e cattiva, il bar è nuovo e io sono straniero, piccolo, solo, triste, incompreso e mi mancano la mamma e la pizza con la sfoglia sottile come si fa da noi. E poi le cavallette.

Con questo stato d’animo dell’imputato in attesa di sentenza mi reco il sabato numero sei a dispensare musiche. Per i primi cinque minuti devo aver anche pensato che forse non me ne andava poi nemmeno tanto di suonare, ma tanto lo so, dopo i primi tre pezzi mi dimentico di tutto o quasi. La serata va bene perchè si festeggia un altro compleanno, non riconducibile ai miei contatti stavolta. I sorrisi dell’uomo chiamato Margarito sono di facciata e me ne accorgo. Ma la gente si diverte con la mia musica, chiede informazioni sulle canzoni, si spertica in complimenti. Sorseggiando l’ultima birra penso a riconfigurare la mia professionalità, da semplice dj a dj/p. r. Ma è un attimo di debolezza : mi rido in faccia da solo. Verranno qui se ne hanno voglia, io non mi metto a implorare nessuno, al limite informo chi me lo chiede sul posto dove suono, i clienti trovateli tu, il mio lavoro è metter dischi. Questo penso, mentre prosciugo l’ultimo boccale. Temerario

Numero sette

Quando arrivo il Margherito si lamenta nuovamente della puntualità, anche se sono in perfetto orario. Era la prima serata senza la compianta valigetta peraltro, e già non ero proprio di buonumore, diciamo. Solita serata di pienone, ma purtroppo in tutti gli altri bar della città. Al Pulp a parte il dj ci sono i soliti quattro sfigati. Nel mezzo della tristezza montante mi conforta vedere che almeno sono riuscito a portare sei persone mie, nelle dieci totali che fa la seratona. E restano pure fino a tardi. Almeno la coscienza ce l’ho a posto per oggi e non esco come un ladro dal Pulp, con la sensazione d’aver rubato i soldi del mio stratosferico compenso. Per la prima volta si evidenziano apertamente i segni dell’insofferenza della dirigenza che si traducono in boccali di birra riempiti di malavoglia e anche in critiche ai generi musicali proposti. L’apice si raggiunge con un dialogo più o meno simile a questo

– Ritis: Perchè non metti un po’ di Rock?

-Benty: Veramente questo pezzo rientrerebbe nel grande universo di quello che molti chiamano "Rock"

-Ritis: Ma non lo so, qualcosa tipo i Sonic Youth

-Benty: Ma questi sono i Sonic Youth

-Ritis: Si ma dai, metti il Rock che alla gente che abbiamo stasera (4 persone al bancone ndB), piace

– Benty : …

Esco dal Pulp fra l’indifferenza, saluto sbadigliando. Sento che la fine è vicina, e adesso poi il mio dolore è tutto rivolto alla perdita dei miei 160 cd. Che mi cacciassero se non gli vado bene. Fatalista.

E infatti il lunedì mattina, la damoclea spada infine trafigge, fredda, dolorosa, ma tutt’altro che inattesa. Mi ha scaricato per telefono Margherito, come se fra noi non ci fosse stato mai nulla, con un tono metallico standard (cit). Ha detto che non vuole più continuare, che non era colpa mia, ma nemmeno sua, che ormai che erano due mesi che le cose andavano male, anche se invece era solo un mese e mezzo e questo significa che non si sarebbe ricordato nemmeno del nostro anniversario. I soliti insensibili gli uomini. Io gli ho detto solo, va bene, come vuoi. Poco male ho pensato, si chiude una porta si apre un portone, morto un papa se ne fa un altro, chiodo scaccia chiodo. Il martedì sera m’è venuta la febbre a trentotto.

Amica con diritto* : il diritto di scoparsela di tanto in tanto.

Inconsolabile

November 11th, 2006 | By benty in Senza categoria | 7 Comments »

Consapevole del fatto che l’ispirazione che conduce alla vera arte può arrivare solo dalla sofferenza e dal disagio, me ne stavo in attesa delle emorroidi per rimettermi a scrivere un post. Quando invece, ieri, il fattaccio.

Stacco tardi dal Kika, dopo una serata apprezzabile, e un set di cui andavo  piuttosto fiero. Dalle dieci alle sei e mezza sono riuscito a non suonare nessun pezzo scontato, tipo niente roba facile come Drupi o Amedeo Minghi, per dire. Nel frattempo mi sono preso cura di dimezzare le scorte settimanali di birra del bar, che nonostante ciò ancora mi paga. Solito scenario di fine serata, luci che si accendono, gente che si attarda, baristi che puliscono il bancone e cameriere che spazzano a terra. Io insonorizzo le loro ultime fatiche, fino a che il padrone mi minaccia di morte se non mi stacco dal mixer. Riscuoto il mio onorario, barcollando mi reco alla fermata dell’autobus che a quell’ora già hanno ripreso a circolare i mezzi, si fa giorno. Il 6, che mi porta dal centro a Kalamarià, passa subito e lo prendo al volo. Mi siedo con le cuffie nelle orecchie e presto crollo fra le suadenti braccia di quello sfaccimme di Morfeo, ma non non il centrocampista.

Al mio risveglio il trauma.

Non trovo una valigetta dei cd, quella grande. Zottàta come direbbero a Roma. Cerco chiedo insisto, vado al capolinea per sapere, perchè mi rassicurino. Invece no, ragazzo rassegnati, è persa. Per sempre. La mia reazione, al solito composta e signorile, compromette seriamente un posto in Paradiso alla mia anima, a meno che Dio e i suoi parenti più stretti non abbiano seri problemi d’udito. Poi, a seguire, il cupo sconforto.

"Fortunatamente" era la valigetta delle selezioni,  soprattutto dei cd masterizzati (ciao Siae! Vieni a prendermi e baciami il culo). Da un punto di vista economico non ho perso che una trentina di cd originali, nessuno dei quali introvabile. Da un punto di vista affettivo è una tragedia. C’erano dentro i primissimi cd masterizzati, roba risaliente al 97, o prima, accozzaglie informi di canzoni senza un perchè, compile adorate e straconsumate, pensate, riflettute, studiate, limate, numerate, nominate, catalogate. Quella valigetta per me era come una città. Coi bassifondi lerci dove suonavano i punk, i quartieri alti frequentati dai nomi grandi, le zone residenziali ordinate e pulite dell’indiepop, i grattacieli newyorkesi dove risuonavano i Sonic Youth e le favelas latinoamericane. Io conoscevo tutte le strade là dentro, le scorciatoie, i percorsi, le bellezze e le bruttezze. Ogni tanto costruivo un quartiere nuovo, la città si allargava. Ogni sera a mettere musica era per me un giro in quella città.

Adesso mi sento in lutto, e di ricostruire dalle macerie non ho ancora voglia. Ho diritto a crogiolarmi nel dolore insostenibile della perdita, lasciatemi solo. Ho anche buone scorte di Nutella in caso di fulminei crolli del livello di serotonina. Niente cd nuovi quindi oggi, ma solo inedia e pulsioni masochistiche. E stasera al Pulp suonerò per segno di protesta e solidarietà con me stesso, soprattutto i cd che hanno al bar.