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Zen Circus al Thermos 12.04.2009

April 13th, 2009 | By benty in Senza categoria | 2 Comments »

Il Thermos è un benemerito circolo arci ad Ancona, vicino piazza Pertini dove quasi ogni volta che torno in Italia riesco a trovare concerti che mi fanno stare bene e sempre a due soldi. Ci ho visto i Massimo Volume e gli Offlaga, per dirne solo due, roba che mi ha segnato. Peccato che abbiano introdotto la novità del buttafuori. Ieri sera finalmente, dopo una decina d’anni di ascolti più o meno, è proprio al Thermos che riesco a incrociare il cammino del terzetto pisano Zen Circus. Il primo ascolto loro che mi ricordo è roba da preistoria di internet, lo scaricai (legalmente!) da Vitaminic ed era un po’ il loro manifesto d’intenti la slackerissima Folk Punk Rockers.

Domanda: perchè a te ti piaccioo gli Zen Circus? Risposta, perchè mischiano una sacco di cose che amo e ho amato, perchè lo fanno con stile e personalità. Cioè tu mi versi 4 decimi di Violent Femmes, 1 decimo di Pavement, uno di Jon Spencer due decimi di Rino Gaetano, tabasco hillibilly, piglio punk a manetta, un po’ di Mano Negra, amaro sarcasmo toscano e voilà. Ci hai in mano praticamente una molotov già accesa, buttala sul palco e prende fuoco tutto. Un’ora scarsa (purtroppo) di purissimo divertimento rocckerolle, melodie mandate già a memoria come inni, cazzeggio furore indolenza sudore e rumore, dediche a Pasolini e andate tutti affanculo con finale straniato. Decisamente uno dei migliori atti live in Italia, ruspanti, genuini, contagiosi, bene bravi bis. No, il bis non l’hanno concesso, che alla fine dell’ultima canzone se n’erano già andati tutti fuori a fumare. Se potete, dove potete, accattatevilli. Per il resto vi lascio alle loro parole, e provatevi a non essere d’accordo.

Come Zen Circus abbiamo giocato con l’Italiano in varie occasioni, ma solo con l’ultimo “Villa Inferno” abbiamo messo a fuoco quella che era l’idea di partenza di questo nuovo progetto: Come un cerchio, i musicisti americani che ci avevano influenzato da appena nati e che ci avevano anche perseguitato negli anni a seguire, sono arrivati fra le nostre braccia come attratti da una calamita.
Hanno collaborato, ci hanno dato consigli, si sono affezionati ed emozionati ed hanno chiuso questo cerchio con il disco che volevamo fare con dentro quelli che ci hanno fatto iniziare. Punto e a capo.

Ma non ci basta, anzi lo consideriamo solo un punto di partenza. Forti di un motore diesel che mai ha conosciuto la parola hype ma solo i faccia a faccia dei mille concerti fatti in ogni remoto angolo di questo paese meraviglioso, ci prendiamo la libertà di mandare l’Italia di oggi, i suoi rituali borghesi, le sue liturgie, le sue maschere liberiste a quel paese. Andate Tutti Affanculo.

E’ il nostro gioco serio, l’urlo più naturale che c’è quando ci si trova accerchiati e non si riconosce più chi è amico e chi nemico. Quando tutti pretendono rispetto, mancandolo puntualmente.

Quindi certo, affanculo la classe politica e quindi anche le mafie, affanculo le religioni tutte, affanculo quelle bestie dei leghisti, affanculo i suv, affanculo la maleducazione borghesotta, affanculo l’educazione proto-cattolica, affanculo la televisione, affanculo Laura Pausini e tutti i mediocri di successo pari lei, affanculo i paraculi e la classe dirigente tutta…ok…

…ma noi non siamo certo Beppe Grillo, non è questo che ci interessa, o almeno non solo.

Quindi troviamo sia quasi più importante, in questo preciso momento storico, mandare Affanculo anche i poveri: chi si vergogna a farlo ha il culo sudicio ed almeno una casa di proprietà: noi no, e facenti parte della categoria ci sentiamo a nostro perfetto agio nel mandare affanculo tutto il proletariato di questo paese: affanculo il ricatto degli affetti, affanculo la voglia di diventare qualcuno, affanculo le madri timorate e le loro preoccupazioni che rendono i figli sterili e paurosi, affanculo i padri “che nella vita c’è da farsi il mazzo”, affanculo i lavoratori che si incazzano per cento euro in meno e non per le libertà civili o per omicidi di stato, affanculo agli stessi lavoratori che spendono fior di quattrini per il calcio: affanculo ai vostri puzzolenti calzini bianchi di spugna da due euro che tenete fieri sulla sedia buona a guardare il calcio su sky mentre vostra figlia non mangia più o magari pensa al suicidio, affanculo il tenere le cose bene, ammodino, non usarle nemmeno che altrimenti si sciupano, affanculo i pettegolezzi, le maldicenze, i “ma lo sai che?”, affanculo la mediocrità ed i vostri telefonini: ne avete a pacchi e non ve ne frega nulla se costano quanto quello che vi trattengono in busta. Che poi non avete niente da dirvi. Cosa dovete dirvi? Che ha vinto l’Inter? Che i giovani sono tutti stronzi? Che stasera al cinema c’è Vacanze di Natale?
Fate i sacrifici per pagarvi la Ford Focus che trattate meglio di vostro figlio che giustamente si fa di cocaina dalla mattina alla sera perchè è figlio del vostro stesso fallimento.
Già, i figli: quelli cattivi sono sempre gli altri. Che contano poco o nulla a meno che qualcosa non possa capitare “anche al vostro” e allora giù con “I nostri poveri ragazzi!”.
Non avete mai capito che sono figli del mondo, figli di tutti, che li cresce il mondo quanto voi e che le vostre paure saranno anche le loro, che la vostra sudditanza al mediocre esploderà nella loro emotività. Affanculo anche i trentenni, mai colpevoli dei loro stessi errori di valutazione, sempre a dar colpa a destra e a manca, raramente interessati o appassionati in quello che fanno. Che già vivono nel passato e ti dicono “Facciamo una cena una volta!”. Come ragazzini a prendere sbornie nei pub di fine millennio nel ricordo dei “vecchi tempi” o fidanzati con una pietra al collo ma “è giunta l’ora di crescere”, che vi mancano gli anni ottanta, i cartoni animati, la rettore, colpo grosso, i puffi, Uan. Accettate tutto, tutto quello che si deve accettare: a volte accettate cose che nemmeno sono imposte, anzi le imponete voi ormai per primi perchè sieti voi che tenete in ostaggio la cultura, il libero pensiero, lo sguardo ubiquo sul mondo, la bellezza, l’errore, la comunicazione, la convivenza civile, il bene profondo della diversità.

Certo va detto che siamo musicisti, non una associazione sovversiva. Ed inoltre toscani, quindi fanatici dell’autoironia e dello scherno. Non ci interessa dare voce ad un’ipotetica generazione x nè tantomento farci portavoce del giusto: facciamo schifo anche noi, a modo nostro.

Ma è importante, ora, adesso, che qualcuno esca dalle righe perchè le convenzioni hanno fallito.
Lo faremo noi con questo disco, speriamo che vi piacerà.

Il resto è solo musica, che è quello che ci riesce meglio.

Tindersticks s Salonicco: fossi figo a trentacinque anni

February 21st, 2009 | By benty in Senza categoria | 3 Comments »

Credo che fosse in riferimento al suo amico Martino – quint’essenza della figaggine come personaggio letterario, a suo tempo – che il vecchio Alex arrivava (rimbalzando necessariamente in qualche luogo comune) a parlare del jazz come di musica che avrebbe voluto ascoltare a trent’anni. Per i profani si parla di Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Il jazz si diceva. Musica che adesso – in età adolescenziale – quella vecchia roccia di Alex non aveva la pazienza o i mezzi per capire, ma che un giorno avrebbe infuso un alone supercool al suo concetto di invecchiare bene. Il jazz e un buon whisky, sarebbero stati simbolo e sigillo della "maturità" raggiunta in modo splendido, senza perdere un’oncia di stile. Quell’arrivare pompieri dopo essere partiti incendiari a furia di Clash, Pogues, Pistols e via elencando, ma arrivarci a testa altissima.

Io al jazz mi sa che non ci arriverò mai. E quindi nemmeno all’alone supercool, visto anche che i trenta sono passati e i quaranta si avvicinano minacciosi. Per garantire alla mia presunta maturità musicale (e non solo) un’apparenza appetibile mi restano ormai pochi colpi. O mi butto direttamente sulla musica classica, entrando poi con cognizione di causa a gamba tesa nell’annoso dibattito Allevi si/Allevi no. Oppure mi trovo qualcosa che riesca a coniugare stile elegante e raffinato, gusto pop, alone di classico, atmosfere noir fumose e vellutate, roba con cui poter indossare una giacca senza sentirsi un manichino della Standa o un modaiolo hipster fuoritempo massimo.

La strada musicale a metà fra canzone d’autore e poesia tracciata dai vari Waits, Cohen, Cave, Morphine, Costeau, Thalia Zadek con un tocco di Calexico.

Motivo per il quale ho trovato assolutamente necessario concedermi un concerto – fastidiosamente perfetto e da persone veramente  mature – come quello dei Tindersticks di ieri sera al Principal. I Tindersticks qui godono di un culto nemmeno troppo carbonaro; sono un gruppo che prima di venire in Grecia avevo si e no sentito nominare e invece anche ieri hanno saputo riempire un locale con almeno un migliaio di persone. Va detto che mancavano a Salonicco da parecchi anni.

La curiosa storia dei Tinderstick è quella di una band che uscì dall’ondata britpop in modo piuttosto anomalo: niente a che vedere con le cagnarette da NME fra Blur e Oasis. Niente chitarrine facili e riff copiati paroparo dai Beatles. Niente sbraghi e sballi da Madchester. Ma invece struggimenti fuori dal tempo e dalle mode,  cucinati a base di fiati archi e tastiere a costruire un pop sinfonico, malinconicissimo, ricco di arrangiamenti complessi eppure capace di canzoni che stillano pop purissimo, ballate notturne, romanticherie stracciamutande, tormenti amorosi, abbandoni e cuori a pezzi. Tutto senza risultare melensi nemmeno per un secondo, ma trasudando classe dal primo all’ultimo brano. Questo è quello che ci hanno proposto anche ieri sera, per poco più di un’ora.

Se proprio c’è da fare le pulci al concerto di ieri, basato sull’ultimo bellissimo album The Hungry Saw, va notata una riproduzione a volte quasi calligrafica di quanto presente su disco. Non una sbavatura, non un guizzo, giusto un paio di arrangiamenti diversi ci hanno fatto capire che di live trattavasi. Una pressochè assoluta mancanza di imperfezioni. Ma è una musica che già infonde calore di suo, e non necessita di trucchetti per stenderci. Inoltre si potevano risparmiare il doppio rientro per i bis, potevano magari privilegiare qualcosa in più del loro primissimo repertorio (relegato appunto quasi esclusivamente agli encore) e sicuramente Stuart Staples (voce) e Leonard Boulter (tastiere) si potevano concedere delle camicie un po’ più decenti. Ma a quella voce sofferente e ossessionata, colma di disperata passione,  perdoneresti ben altro che una camicia a scacchi di dubbio gusto.

E comunque stasera tocca ai Mogwai, prima che mi diventino i capeli grigi per la troppa maturità da svolta intimista e volumi moderati. Con una doppietta del genere questo febbraio, inaugurato magnificamente dai Giardini, rischia di divenire seriamente memorabile. Ora mi metto la dentiera e poi vado.

update: ho parlato troppo presto. Alla fine niente Mogwai, l’abuso di algasiv mi ha dato alla testa

Gigantesca bellezza: Giardini di Mirò a Salonicco

February 8th, 2009 | By benty in Senza categoria | 4 Comments »

I Giardini di Mirò sono un gruppo gigantesco. Gigantesco è l’unico aggettivo che mi gira in testa da ieri sera, e che continuo a ripetermi ripensando al concerto, seconda data del mini tour greco che li ha portati fino a Salonicco. Provo una ammirazione che sconfina nell’adorazione per questa band. Una cosa che va anche oltre la musica. Un amore dovuto a quella miscela di talento, stile, assalti sonici, fermento creativo, passione, idee, scelte,  attitudine, attivismo musicale, rigorosità, coerenza, evoluzione, assenza di pose, militanza e potrei continuare ancora una mezz’oretta con questi inutili sostantivi da panegirico. Questo è un panegirico. E cotale somma di meraviglie ha avuto luogo in Italia, la terra che musicalmente è conosciuta all’estero per Al Bano e la Carrà. Non mi capacito, davvero.

Il loro concerto di ieri sera, anche se condizionato inizialmente da problemi tecnici e di salute (allergie e stanchezze da tour-lampo assortite), anche se l’Eightball è fondamentalmente un covo di metallari, anche se a volte mi sono lasciato distrarre dalle immagini del film di Pastrone proiettate alle spalle del gruppo, è stato formidabile in termini assoluti; non ricordo di essere rimasto sepolto da una cosa così forte dai Sonic Youth a Ferrara, o da certi concerti dei Marlene visti eoni fa. Vedere in atto il concetto di SAPER STARE SU UN PALCO. Sarà che ero a secco di concerti da una vita. Sarà che Burro alla batteria vale da solo il prezzo del biglietto. Sarà che da quando sono qui sognavo di vedere uno dei miei gruppi italiani preferiti suonare a Salonicco. Sarà che non mi aspettavo quel tipo di versione voce/chitarra per Dividing Opinions. Sarà la tromba di A new Start. Sarà che forse mi sarebbero bastate Pet Life Saver e Little Victories per andarmene contento. Sarà che non li vedevo dall’Homesleep festival di Ancona, qualcosa come 6 anni fa.

Fattostà che per me Dividing opinions è un diamante della musica indipendente italiana, e non mi trovo il solo a pensarlo. Un album che prosegue inattaccabile il viaggio iniziato da "The rise and fall" e continuato con "Punk not diet". Il repertorio dei concittadini (onorari) di Lenin, contiene canzoni di pura struggente bellezza. Ecco un’altra parola banalissima che mi frulla in testa da ieri, e non renderebbe giustizia ai Giardini trovargli dei sinonimi. Suonano roba così oggettivamente incontrovertibilmente ineluttabilmente bella che l’eco ha da tempo passato i confini nazionali. Reverberi, Nuccini e co. da vedere su un palco o da ascoltare su un cd mi provocano sentimenti che per poco non travalicano l’eterosessualità, e sono una delle ultime cose che sanno gonfiarmi il petto d’italico orgoglio. Di questi tempi cosa assai rara, direi.

Lasciatemi cantare con la chitarra in mano

February 6th, 2009 | By benty in Senza categoria | 7 Comments »

Da Athens a Athens

October 2nd, 2008 | By benty in Senza categoria | 2 Comments »

Aggratis e rischio di non andarci !!!

Nouvelle Vague a Salonicco

December 17th, 2007 | By benty in Senza categoria | 9 Comments »

Ma ancora me stai ai Nouvelle Vague, me stai? Fanno cosi’ tanto 2004.

Per forza, qui vengono ogni anno, ad Atene hanno fatto due concerti la settimana scorsa, e poi era l’ultimo concerto un minimo appetibile di questo magrissimo 2007, e poi non li avevo visti mai, e poi ma che cacchio volete? Io rivendico di andare a vedere i Nouvelle Vague, embe’?

Insomma, domenica sera ce ne andiamo a vedere ‘sti francesi, ben pieni di pregiudizi dovuti anche a stroncature precedenti, che io, nonostante tutto, a quello che dicono certi blogger ancora ci credo.

Il Principal (non ci mettevo piede dal concerto di Morrissey) e’ pienotto, pienissimo per essere domenica sera. Arriviamo e ce ne andiamo a cercare posto in alto, e troviamo delle comodissime poltroncine a picco sul palco. Non e’ che me ne voglio stare in piedi ad ascoltare gli odiati magnabaguette, figuriamoci, tse’. Ci compiaciamo della nostra trentennita’, roba che ci manca solo un whiskey e un sigaro oltre alle pantofole, e ci prepariamo psicologicamente all’evento, mentre ancora suona il one-man-support-band, una specie di Ben Harper piu’ giovane ed entusiasta, che imbraccia la chitarra semiacustica e bluespoppeggia con una voce notevolissima e con molta personalita’, anche se con suoni poco originali. Bravo e coraggioso.

Poi arrivano, preannunciati da un forte fetore di camembert e roquefort, i transalpini. Una cantante frangettata, la tipica esponente della rive gauche, due chitarre sciovinistissime, tastiere che fremevano per cominciare con la marsigliese, batteria con la puzza soto il naso, per quello che possiamo vedere dalla nostra posizione defilata, ma ci dev’essere indubbiamente dell’altro, forse una miniatura della tour eiffel sul palco da qualche parte. Aridatece la Gioconda, brutti zozzoni, o almeno la Bellucci. Questo penso.

Il trucco del perfidi discendenti di Asterix e’ noto. Sono solo una cazzo di cover band, e tutte le persone maggiorenni, dotate di senso estetico ed integrita’ morale, dovrebbero odiare visceralmente tutte le stracazzo di cover band del mondo, a parte gli Ivellezza, che ci suona mio fratello, ovviamente.

Dal vivo pero’, al contrario di quanto avevo leggiucchiato in giro, sono proprio bravi, tecnicamente irreprensibili. Maneggiano disinvolti e versatili tutti gli ingredienti di bossa nova, blues, reggae, ska, e sanno passare da ritmi piu’ pestoni ad atmosfere piu’ soffuse e acustiche. La cantante e’ elegante e sa accalappiarsi i favori della folla. Coinvolgono il pubblico che conosce tutte le canzoni a memoria, e infatti e’ tutto un singalong, un ballo e uno scoppiare di boatini di gridolini ad ogni intro riconosciuta.

Qui sta il punto. Il giochetto ha stufato? Possiamo continuare a tollerare un’altra cover band, solo perche’ propone – bene e in chiave accattivante-  canzoni che sono il meglio degli anni 80 (punk-post punk-new wave-e fate voi il resto)?  Premetto che della cover ben fatta sono un fan, in particolare se proposta in arrangiamenti inattesi. E che a me la bossa piace parecchio. Non contesto dunque da duro e puro che si strappa i capelli perche’ hanno osato rifare In a manner of speaking. Il fatto e’ che forse a un certo punto viene voglia di vedere se sanno fare altro. Qualcosa di loro. Perche’ e’ troppo facile prendersi applausi per Sweet Dreams e Blue Monday. E’ quello che fanno le cover band. Mi chiedo dunque se abbia ormai fatto il suo tempo la rivisitazione-concept di tutto un repertorio a me caro ( peraltro in piena rivalutazione, vedi anche la marea di film e libri dedicati all’epoca), un progetto furbo a partire dalla scelta del nome, che sprizza cultura cinematografica e doppisensi musicali. Ma che alla fine sono solo cover. Ben fatte, ma cover. E pero’ che cover.

Qui ci fottono il cuore i maligni mangiarane. Si, ci dicono spudoratamente e con le loro erre subdolamente arrotate, noi siamo una stracazzo di cover band. Ma guarda che cazzo di cover che ti facciamo. Mica siamo i Bluebeaters che non vanno oltre Gino Paoli. Noi abbiamo studiato e non vi prendiamo per stupidotti, a noi ci piacciono i Cramps, i Buzzcocks, gli Smiths, gli Echo and the Bunnymen, i Cure, i P.I.L., come a voi, roba che in Italia ve la sognate. Ma in Grecia no. In Grecia, a Salonicco, ieri sera, quando hanno chiuso la prima parte del concerto con Love Will tear us apart, i 500-600 presenti (forse di piu’, mai stato bravo a calcolare) hanno continuato in coro a cantare il ritornello dell’anthem dei Joy Division, finche’ , lasciata finalmente da parte la loro insopportabile grandeur,  i cuginetti di Zidane sono tornati in scena in fretta e furia, e hanno ricominciato proprio da dove avevano smesso, con la gente che ancora cantava all’unisono, e hanno riattaccato proprio da quella canzone. Praticamente quello che in Italia avviene con il Popopopopopopo degli White Stripes, per farvi capire come siete messi.

 

Goodbye beautiful joys

November 10th, 2007 | By benty in Senza categoria | 1 Comment »

Mi reco allo Kslilourgeio, locale piccolo ma buono, all’interno del complesso Mylos, con l’animo sordo di chi non vuole sapere. Tornano per la terza volta in pochi anni le mie dilette Electrelane in concerto, ed io nuovo io ci sarò. C’ero la prima volta, quando eravamo in quindici (ho sempre sognato poterlo dire) e a fine serata ci hanno offerto da bere, c’ero a Benicassim in trionfo di pubblico, c’ero la seconda volta a Salonicco col locale pieno e mi sono dovuto allontanare in anticipo sulla fine, ci sarò anche stasera. Suoneranno molti pezzi di No shout no calls, cd che ho acquistato, ho ascoltato, ho suonato, ho anticipato, di cui ho scannerizzato la copertina per farne tshit (fichissime) da regalare, strumento grazie al quale ho convertito al culto delle 4 brighotniane chi a me è più vicino.

La nefasta novella avrei dovuto apprenderla poco prima del concerto, da una email che conteneva un link. Invece il pc mi ha impedito di aprirla. Mi piace pensare che abbia voluto proteggermi dallo straziante dolore, e poi dicono che i computer non hanno un’anima. Poi però le cose si vengono a sapere. Una notizia un po’ originale non ha bisogno di alcuna email. Le situazioni più dure vanno affrontate virilmente, da uomini adulti. Quindi ho deciso di togliermi le mani dalle orecchie, ho aperto gli occhi e soprattutto ho smesso e di urlare a squarciagola "LALALALALNONONLOVOGLIOSAPERELALALALALNONMELODIRELALALALNONMIINTERESSALALALALA". E ho saputo. Le mie amate hanno deciso di sciogliersi (per ora).

Ciò deve aver influenzato quasi sicuramente il mio umore ieri sera. Almeno così mi è sembrato di capire. Non tanto per le  macchine fuori dal locale che ho rigato, o per le crisi di pianto improvvise e quella sciocca rissa all’entrata. Quanto perchè ho sviluppato un’insofferenza insolita per i gruppi di supporto, che probabilmente in altre situazioni avrei apprezzato di più.

In primis gli evitabilissimi Dread Astaire, greci cugini moooolto sfigati degli One Dimensional Man, col cantante che presentava il peggiore taglio di capelli visto in anni di carriera concertistica, un’acconciatura agghiacciante sospesa fra Fernando Couto, Cocciante e Ozzy Osbourne e il bassista con il giacchetto di Fonzie che dentro il locale c’erano 30 gradi. E lui non sudava.

E poi la violista Anni Rossi, che invece nei tre o quattro pezzi eseguiti m’è abbastanza piaciuta, con le sue melodie sghembe, ma smentendosi in seguito su disco.

A tutto ciò segue una specie di smontaggio palco-soundcheck infinito, giustificato da Verity con il fatto che gli avevano cancellato il volo e dunque avevano dovuto farsi prestare parte della strumentazione andata perduta, e avrebbe dovuto suonare il piano senza pedale. Immagino ciò rappresenti un dramma, per un pianista.

Alla fine cominciano le mie belle gioie. Mi sembrano però, lo dico subito ma lo capirò dopo, più fredde e meno compatte. Sarà il frangettone di Verity, sarà l’immobilità di Ros in mezzo al palco, saranno i tacchi di Mia che i è diventata mora, forse non casualmente. Facciamo a capirci. Le ragazze continuano a brillare di luce propria. Sanno sempre orchestrare magistralmente un’ora e qualcosetta di emozioni, fragori & esplosioni, suadenti canti da sirene, tastiere imbestialite, chitarre giovanisoniche, buio e luce,  batteria che pestapestapesta, accelerallentamenti cinematici, lati oscuri della mente, riffettoni a effetto anthem, urletti da stadio (piccolo), chitarroni pesantoni, melodie che ti si piantano nel cervello come chiodi e roba che fa hedbangare i peggiori metallari presenti. Un malestrom di cose, però fuso stavolta a temperatura zero. Sudano solo Mia, che quella chitarra la offende e percuote con il solito trasporto e la solita classe, e Emma, vero kalashnikov ritmico con tanto di polsino di spugna, occhi – sempre quelli – da cerbiatta maschia e ciuffo very very emo. Verity in particolare mi è sembrata altrove, forse stranita dagli imprevisti, e mi è parsa mancare, nonostante l’innegabile riuscita del concerto, quell’intesa forte, evidente, quell’unisono violento, e dunque la loro stessa identità, ovvero l’anima Electrelane, che altre tre volte avevo ammirato a bocca aperta e in genere perdendo saliva in segno di ammirazione.

Quindi è stato un addio in sordina, in tono dimesso, senza lacrime, a nemmeno senza tanti sorrisi. Pure il pubblico, parecchio numeroso, sembrava rispondere meno delle altre volte, e solo ai pezzi più tirati. Per quanto vi riguarda, o lontani conterranei, non cercate loro date, che il loro ultimo tour non prevede l’Italia, e non so perchè, ma mi pare pure giusto.

il cimelio del triste commiato, frutto dell'amore e dell'agilità della mia comprensiva fidanzata

Patti Smith a Salonicco

September 25th, 2007 | By benty in Senza categoria | 2 Comments »

Si apre (e immagino si chiuda contestualmente) la sempre piu’ triste e povera stagione concertistica salonicchese. Ormai siamo a un paio di esosissimi concerti l’anno quando va bene. L’anno scorso Morrissey e Devastations: quest’anno si inizia da domenica scorsa, con una nuova promessa della musica alternativa americana, una di quelle giovani leve che fa ben sperare per il futuro dell’indie made in U.S.A., Patti Smith.

L’arzilla performer si presenta puntuale al Vellidio, un centro conferenze assolutamente inadatto a ospitare concerti (s’era gia’ notato ai tempi di Nick Cave) a causa anche di un’acustica assolutamente inadeguata. Sul palco con lei una band essenziale: basso, chitarra, batteria e tastiere. Il tour non e’ casuale, ma serve a promuovere l’ultimo disco della poetessa di Chicago, l’album di sole cover Twelve, che mi ha convinto solo a tratti. Ma ovviamente uno Patti Smith se la va a vedere non solo per quello che ha prodotto di rilevante recentemente (poco o niente) ma per quello che ha rappresentato e rappresenta, ovvero un pezzo di storia della musica contemporanea bello grosso. Inoltre vale assolutamente il prezzo del (salatissimo al solito) biglietto, anche solo per sentirla cantare "Redondo beach" e "Dancing Barefoot", oltre che per struggersi durante l’immancabile "Because the night", con la propria amata fra le braccia e l’immagine di Ghezzi che parla fuori sincrono a fare da virtuale background.

Patti Smith ha sul palco movenze assolutamente semplici ma che sprigionano carisma, apre con Redondo Beach, balla felice e coinvolta dalla sua musica come un’adolescente farebbe da sola in cameretta sua, continua con Free Money, introduce al clarino la cover di "Are you Experienced" citando le note di "A Love Supreme" di Coltrane (che domenica era appunto il suo compleanno), si toglie la giacca, scende dal palco, si assenta per lasciare la scena a Lenny Kaye e soci che suonano una "Pushin Too Hard" davvero garage, prova per la prima volta la cover di Children of the Revolution dei T-Rex di Marc Bolan sbagliando clamorosamente parole e tempi (ma ci aveva avvertito, "i might fuck it up"), intercala brevemente le sue canzoni con appelli contro la "fuckin war"  che nemmeno i Modena City Ramblers, oppure dice solo "Hello!" e fa ciao con la manina, che nemmeno una bambina piccola, poi scaracchia abbondantemente, incolla alcune sue poesie dentro le canzoni di Twelve (versioni di Beatles, Dylan,Nirvana) di lunghezza a volte un po’ eccessiva, canta Pissin in the river, fa ballicchiare un po’ tutti quando suona Gimme Shelter, chiude una prima volta con Gloria, chiude infine davvero in bellezza con un doppio bis, composto da People have the power, qui di recente tornato in auge grazie a delle pubblicita’ di compagnie telefoniche, e soprattutto una versione bella tirata di Rock’n’roll Nigger.

Patti Smith ci ha una voce assolutamente sensazionale e inossidabile, bella e viva come se fossi a casa tua e avessi messo sul giradischi Horses. Il concerto non e’ decisamente travolgente, ma e’ assolutamente gradevole. Fra il mettere un cd di Patti Smith nello stereo e l’andare a sentirla dal vivo un’ulteriore differenza si scorge nel fatto che dal vivo, fra una canzone e l’altra, Patti ci ricorda che la rivoluzione nasce dal cuore ognuno di noi e che siccome we are people and we have the power, and the night belongs to lovers, dobbiamo essere i primi a fare qualcosa e muoverci, che insomma c’e’ sta revolution da fare a colpi di true love contro la fuckin war.

Capisco che sei Patti Smith, e devi difendere la tua fama di sacerdotessa roccherolle e di profetessa beatnik ma pure punknewave, che sei un mito della musica, e capisco pure che ti vergogni che sei americana e tutti ti ricordano che i tuoi connazionali hanno voluto Bush. Ma, cara Patti, pure i miei compaesani un paio di volte hanno voluto Berlusconi, figurati , mica e’ colpa nostra no? Non me la fare tanto lunga , che senno’ mi sembra di stare a un raduno di figli dei fiori, mi innervosisco e appena uscito dal concerto l’unico istinto che ci ho e’ quello di picchiare le vecchiette che incontro per strada.

Devastations, 22.02.2007 a Thessaloniki

February 24th, 2007 | By benty in Senza categoria | Comments Off on Devastations, 22.02.2007 a Thessaloniki

Siamo arrivati quasi a Marzo e riesco a vedere finalmente il primo stracazzo di concerto dell’anno; così stanno le cose nel 2007 nella Grecia settentrionale, in una città da un milione e mezzo di esseri grecoidi. Giovedì sera ho cancellato senza sensi di colpa una lezione, ho imposto senza batter ciglio un’ora di straordinari non pagati alla segretaria, che si fermasse a chiudere la scuola in mia assenza senza stare a tirarla tanto per le lunghe, e me ne sono andato piuttosto felice a vedere gli australiani Devastations, per la loro prima data assoluta in Grecia.

Il biglietto riportava impietosamente l’insuccesso delle prevendite, recitando numero 13, anche se era stato staccato solo la mattina precedente al concerto. In effetti quando sono arrivato allo Xilurgeio il vuoto dapprima mi ha spiazzato, rimandandomi in loop nel cervello le solite tiritere su quanto i greci non capiscano un cazzo di musica e per esteso anche della vita, ammesso e concesso largamente di essere noi i depositari del giusto. D’altronde per questa estate hanno confermato l’arrivo in Grecia dei Metallica e degli Iron Maiden, dio castoro. Poi, avrei pensato più tardi, a volte è una sensazione davvero fantastica quella di vedersi un concerto belli tranquilli, a quattro metri dal palco, potendo comodamente fumare, svaccati ma una roba che mi mancavano solo le ciabatte e la scheda elettorale nuova per votare partito dei pensionati.

Prima dei Devastations c’è anche un gruppo di supporto, i già ascoltati (in apertura agli Arab Strap) Broken seals, salonicchesi autori di una musica malinconica, intorpidita ma a tratti pure canticchiabile, piuttosto ricca di velleità nobili e che si difende benone con i primi due pezzi e gli ultimi due. La flessione nella parte centrale ha sprofondato me e i miei sodali di concerto in uno stato vagamente narcolettico. Il simpatico cantante dei Broken Seals è una cosa a metà fra Joe dei La Crus, e quello riccio di Ale e Franz; non so quanto possa aver influenzato la sua performance il fatto che mi abbia chiesto di fargli lezioni d’italiano, poco prima di iniziare  a cantare, e che io abbia prontamente rifiutato.

Poi arrivano i Devastations, dopo un estenuante ari-soundcheck. Avevo letto che erano tre, e invece si presentano in quattro, che alle tastiere c’è una ragazza con capello a caschetto. Il suo apporto è piuttosto impalpabile, ma almeno non disturba, come invece era accaduto con la sciarpa carnascialesca della bassista dei Broken seals, cromaticamente quantomeno urticante. Dei Devastations avevo ascoltato qualche pezzo (scaricato e regolarmente pagato con tanto di scontrino da I tunes, e affettuosi saluti alla siae e alla riaa, come mio solito), e mi ero fatto un’idea di andare ad ascoltare ballate a metà fra quelle "murder" di Re Inchiostro e quelle notturne morphinizzate. Che ci sono pure state, come da copione, ma rappresentano solo in parte la musica suonata dagli australiani.

Come ogni vero blogger che il sabato non ha niente di meglio da fare, mi sono documentato all’uopo su un gruppo la cui carriera non avevo avuto modo/tempo/voglia/occasione di approfondire. Il risultato delle mie diligenti ricerche mi ha insegnato che ogni volta in cui si parla dei Devastations si devono citare 

  1. Fra le indubbie fonti d’ispirazione Nick Cave (almeno tre volte, inclusi i Birthday Party), Tindersticks, Morphine (in particolare il compianto Mark Sandman, spirato sul palco di Palestrina, Italy), Costeau, Black Heart Procession, National, e fra i classicissimi le cose più scure di Cash e Coehn. Tutto giusto e confermato da ciò che si è sentito al concerto, io di mio ci aggiungerei anche certo Lou Reed, che non si sbaglia mai. Credo che se si cita Nick Cave come loro influenza davanti al cantante, e lui ti sente, si rischiano almeno un paio di incisivi. Te li spezzerebbe con un pugno, probabilmente proprio come farebbe Nick Cave, epigono anche in quello.
  2. Fra i fatti rilevanti che hanno costellato la loro ascesa il settemmezzo di pitchfork al loro ultimo album Coal, le mutandine bagnate di Karen O per il loro omonimo esordio nel 2004, le amicizie importanti (Dirty three, Liars, Einsturzende Neubaten), l’equivoco del nome (che porterebbe inizialmente a crederli dei punk o dei metallari) e il passaggio da Melbourne a Berlino. Leggendo alcune biografie musicali mi chiedo sempre come facciano band giovani e verosimilmente squattrinate a trasferirsi improvvisamente all’altro capo del mondo, e se siano plausibili per giustificare tali spostamenti motivazioni come "…respirare le atmosfere di X, assorbire il mood di Y, immergersi nell’ambiente di Z"  (dove X ,Ye Z sono città affascinanti a vostro piacimento). Ma a campare nel frattempo come fanno? Fanno cose? Vedono ggente?
  3.  Fra gli aggettvi ricorrenti: tetro, scuro, oscuro, nero, noir, melodrammatico, intenso, romantico, avvolgenti, vibranti, lancinanti. Fra i sostantivi atmosfera, personalità, carisma, intensità, romanticismo, scurezza. Provate a mischiarli a caso e avrete una recensione accettabile di Coal.

Detto tutto ciò leggete qui, e sarete convinti di capire le recensioni musicali in greco. Passiamo al concerto.

Impressionano i Devastations innanzitutto per la sicurezza che mostrano sul palco: sembrano dei pischelli ma si muovono come consumati artisti. Inoltre colpisce la compattezza assoluta del sound, manco bassochitarrabatteria uscissero da uno strumento solo, che ti investe dal primo pezzo, frantumando inizialmente le aspettative di musica triste, lenta, straziante. Difatti attaccano con un paio di canzoni piuttosto tirate. Succede pure che sul finale di due o tre brani il summenzionato sound tenda pure ad innervosirsi, dando finalmente un perchè musicale alla loro ragione sociale, con strascichi sonicissimi di chitarre distorte che come sempre mi hanno causato imbrazzanti erezioni. La parte centrale del concerto è stata dedicata a canzoni più lente fra cui I Don’t Want To Lose You Tonight, Coal, a cui hanno alternato cose dal ritmo più sostenuto come Loane ( a metà tra Lanegan e i Calexico, tiè altre due influenze a cui non avevo pensato!) o addirittura "pop" per loro stessa definizione come Sex and Mahyem.

Poi ci sarebbe da affrontare il capitolo "Voce di Conrad Standish". Io mi limiterei a riportare che il ragazzo (che suona incidentalmente anche il basso), ha quella che potremmo tranquillamente definire una "voce della Madonna". Se non fosse stato per quei pantaloni chiari sooo seventies e una specie di mocassino bianco inguardabile, la sua prova a Salonicco sarebbe risultata assolutamente impeccabile: classe, ispirazione, seduzione, pathos – che in Grecia suona anche bene.  Standish ha una voce che lèvati, anzi resta e ascolta in religioso silenzio, e se ci hai un cuore commuoviti e fatti smuovere da quelle frequenze vocali basse e suadenti, che scuoterebbero pure un D’Alema ibernato (Dio non voglia!).

Le canzoni dei Devastations ti parlano in effetti proprio delle Devastazioni dell’amore. Io infatti soffrivo come un cane mentre Conrad cantava Previous Crimes, mi struggevo pensando proprio alla mia dolce metà, che in quel momento era a spaccarsi la schiena (fino a notte fonda) presso un noto ristorante italiano per permettermi di pagare il biglietto del concerto e due birrette, che vuoi o non vuoi te le bevi, altrochè. Ma d’altronde l’amore è fatto anche e soprattutto di queste cose, mi sembra.

Per il bis tornano e suonano una ballata dolcissima, solo per chitarra leggera arpeggiata e "voce della Madonna" e  chiudono trionfalmente con un brano che non ricordo – ma c’era il batterista – con finale di strumenti votati al rumore.

Insomma, con i Devastations venerdì scorso fu seduzione immediata. Per dire, sono stato anche in grado di passare sopra a un gravissimo episodio: hanno intitolato e pure cantato un’appassionata ballatona strappamutande "We will never drink again". Sconsiderati! Trattavasi di una provocazione bella e buona, ma lo so che alla fine stavano solo scherzando, si sa, sono ragazzi, e allora li ho perdonati. Siccome so che vengono in Italia fra un po’, vi consiglio di andarli a vedere e di lasciarvi affascinare da questi australocrucchi malinconici, semprechè Sanremo o le Devastazioni politiche italiane non vi trattengano a casa. Qui un paio di mp3, che non badiamo a spese.

23 dicembre, Ivellezza a Fabriano + intervista esclusiva !

December 24th, 2006 | By benty in Senza categoria | 13 Comments »

The Ivellezza, segnatevi questo nome, ne risentirete parlare presto. Sono una formazione di sette elementi dedita a coverizzare classici del rock e del blues, e a bere mistrà Varnelli in quantità industriali. Prima durante e dopo i concerti. Quest’ultimo aspetto ce li rende già particolarmente simpatici. Detengono peraltro il record di chitarristi impiegati, ben quattro, soffiando il primato a lungo in mano ai Gipsy Kings. Non si pensi che si tratti di chitarre superflue però. Il chitarrista Max Papi chi ha spiegato che è la risposta a una esigenza scenica e sonora, funzionalmente legata all’abitudine di abbeverarsi man mano che le birre e i superalcolici arrivano, cosicchè non si scaldino. "Poichè io e il Biondo suoniamo esattamente la stessa cosa in tutti i pezzi, possiamo facilmente alternarci sul palco a bere, senza che venga meno il nostro sound, nè la schiuma delle bionde medie".

Ieri sera al ristorante osteria Fortino di Fabriano c’è stato il loro pubblico debutto dopo un paio di quasi secret-gig, fortunate performance private presso feste di laurea e di matrimonio in cui il progetto Ivellezza si era prematuramente rivelato. Sold out da settimane la data di ieri, grazie anche all’ottima offerta menù fisso a 25 euro, vino incluso. Era presente tutta la città che conta e soprattutto quella che trinca. All’arrivo dell’ammazzacaffè the Ivellezza si dispongono sul palco. Nemmeno salgono sul palco, che il loro tavolino era già disposto accanto agli strumenti, ne siano testimoni gli schizzi di sugo sulla batteria (agli Ivellezza piacciono le tagliatelle al ragù ndB).

The Ivellezza sono Giallu, detto un tempo il Vertebra, anima vera e propria, deus ex machina della band, talentuosissimo chitarrista, maestro indiscusso di assoli roccherolle nonchè di Pro Evolution Soccer. Scotty, bassista dedito ai System of a Down, dal look chiaramente ispirato al più fotogenico Bin Laden che forma insieme al batterista Sandro detto One (da non pronunciarsi assolutamente Uan) la sezione ritmica più affiatata e alcolica della provincia anconetana. E anche la coppia di fegati più appesantiti. Poi c’è Bubba alla chitarra semiacustica, unico elemento del gruppo a rifiutare l’assalto delle fan e delle groupie. Non si sa bene se perchè coniugato o perchè, come si vocifera soprattutto verso Natale, gay. Comunque null’altro che un ulteriore motivo per alzare il gomito. Poi ci sono le due elettriche sporche di Max Papi e del Biondo a dare vigore e polpa ai brani, alternandosi con estrema scioltezza ed efficacia anche ai limoncelli. E infine Bentino, detto Bràdas, voce sexy e presenza scenica del gruppo, che si applica volentieri anche a numerose birre.

La prova di ieri ha fornito risposte forti agli scettici, ha incendiato gli animi degli astanti a più riprese, e ha inoltre terminato le scorte di vino rosso del locale. Personalmente abbiamo esultato su una cover di Hasta siempre comandante, che parte quasi mariachi e finisce con un tiro disco, in grado di riportare alla mente i primi Cake in salsa punk-funk. Il successo di pubblico ha convinto i gestori a posticipare l’orario di chiusura visto che l’alcolismo dilagante sul palco ha coinvolto anche gli spettatori imperterriti nel dedicarsi a questo nobile passatempo. I maligni dicono per dimenticare la scena degli Ivellezza sul palco con le corna finte da renna. La verità è che il ritmo imposto dalla band ha fatto muovere il culo alle oltre duecento persone presenti sulle note della imperitura Johnny B Goode, di Cocaine e di Bad to the bones. Al culmine del concerto si è acceso addirittura il pogo su una meta-cover (ovvero la cover della cover) di Wonderful World. E inoltre Basket case e Smell like teen spirit. Finale glorioso con Porompompero, da anni loro cavallo di battaglia presso tutte le feste popolari e osterie della provincia, e non solo.

Abbiamo ottenuto in esclusiva la loro prima intervista, due chiacchiere che potremmo quasi definire in famiglia con il cantante dei the Ivellezza, Bentino.

tragedie greche: ciao Bradas

bentino: Uè ciao

tragedie greche: a cosa si deve il nome del gruppo, Ivellezza?

bentino: il nome nasce da un manifesto elettorale di un candidato di Forza Italia di Jesi. Il suo programma era fortemente a favore della caccia. Costui si vantava di aver sterminato centinaia di starne in Romania. Nella nostra sala prove campeggiava, non so come nè perchè, questo suo manifesto, dove si presentava in giacca cravatta e cappello in pelle di coccodrillo. Il suo nome era Roberto Bellezza. Dalla fabrianesizzazione del suo cognome nasce il nome del nostro gruppo, prima i Bellezza, poi i Vellezza, poi gli Ivellezza

tragedie greche: quali sono le influenze principali della vostra musica?

bentino: a parte l’amaro Sibilla intendi? Beh, i pezzi vengono scelti seguendo il fil rouge del divertimento di chi ci ascolta. Cerchiamo di evitare il commerciale più scontato e presentare dei brani conosciuti all’orecchio dei più. In teoria ogni elemento del gruppo dovrebbe presentare delle canzoni da coverizzare di tanto in tanto. Alcune all’inizio furono scelte in base ai gusti del festeggiato (visto che abbiamo iniziato a suonare a una festa di matrimonio e a una laurea) e poi abbiamo sviluppato altre preferenze, un percorso artistico del tutto nostro.

tragedie greche: avete mai pensato di proporre pezzi vostri?

bentino: alcuni elementi del gruppo ci hanno provato, ma io ribattevo "Cantateveli da soli". Non molto democratico come metodo, ma sono pur sempre il fottuto frontman, sono io che ci metto la faccia, Cristo. A Bubba che una volta portò in sala un suo pezzo, ed era molto eccitato a riguardo, risposi dopo averlo ascoltato con attenzione "Sto pezzo me fa gelà il sangue"

tragedie greche: il progetto Ivellezza, nasce come divertissment. Visto il successo riscosso, anche ieri, avete intenzione di proseguire o si fermerà tutto qui?

bentino: la prossima data ufficiale degli Ivellezza sarà a giugno, per il matrimonio di uno dei componenti del gruppo (Il Biondo ndr). Pensiamo di spostarci in nuove aree, dove siamo meno conosciuti, per vedere se la musica che facciamo piace di per sè, o se abbiamo successo solo perchè siamo noi a suonare quasi sempre davanti a nutriti gruppi di nostri amici. C’è in cantiere un progretto di turnè, sviluppato dal nostro manager (Fuccio), che ha come prima tappa Salonicco, con organizzazione di autobus per gruppo, entourage e fan, 100 euro a biglietto andata e tirorno con free cocktail a bordo fino ad esaurimento scorte. A dire il vero ci siamo già esibiti fuori dai nostri confini, spingendoci fino a Costacciaro, peraltro. Poi si parla di affittare un tetto a Dublino per un video, ma è venuto fuori ieri sera, dopo il terzo ammazzacaffè, quindi…

tragedie greche: l’alcol come influenza il vostro processo creativo?

bentino:è una componente grazie a Dio sempre presente, e quando ce n’è diamo sempre il meglio di noi. Ieri sera ad esempio ci tenevamo dritti in due, alla fine dell’esibizione.

tragedie greche: chi è il fan tipico degli Ivellezza?

bentino: grazie per avermi fatto questa domanda. Non te lo saprei dire. Gente di una certa età che apprezza la buona musica, direi. Anche se a dire il vero tutti sembrano apprezzare le nostre scelte orecchiabili. No, non credo proprio che, come si dice in giro, essere nostri fan abbia necessariamente a che fare con spiacevoli storie di alcol alle spalle

tragedie greche: puah, dicerie senza senso. Direi di chiuderla qui. In bocca al lupo per tutto allora. Vuoi dire qualcosa ai tuoi fan?

bentino: si. Vorrei informarli che non torneremo troppo presto perchè abbiamo paura di stancare l’audience, ma faremo nuove cover di altissimo livello, potete starne certi. Ah e poi auguri a tutti i lettori del blog

tragedie greche: grazie ciao

Nonstante l’assonanza di nomi possa trarre in inganno, assicuriamo l’assoluta oggetività dei nostri giudizi su the Ivellezza, che nascono esclusivamente da attenti e ripetuti ascolti. Ci sentiamo in dovere di escludere assolutamente ogni tipo di legame familiare di alcun membro dello staff di Tragedie Greche con componenti di questa grintosa e giovane (si fa per dire) band dal futuro radioso.

bentino: Ah senti, ha detto mamma se andiamo a tavola che è pronto il pranzo, e poi si fredda il risotto e non è più buono

tragedie greche: va be’, arrivo