John Cale a Salonicco. Una prece

21 January 2006 | By benty in Senza categoria

Non ho mai visto dal vivo i Nirvana, ma anni fa ebbi l’occasione di vedere su un palco Dave Grohl e i suoi perlopiù inutili Foo Fighters. Non ho mai visto dal vivo gli Husker Du, ma ieri sera ho visto Bob Mould, parecchio appesantito. Ha aperto il concerto di John Cale ieri sera al Mylos Apothiki. Da solo armato delle sue chitarre, elettriche e semiacustiche, ha mostrato classe e grinta, chiudendo il suo breve showcase con Make no sense at all. Dignità roccherolle, un bel modo di invecchiare per l’ex capoccia di un gruppo "seminale" come dicono quelli bravi.

Non ho mai visto i Velvet Underground, ma ho visto un paio di volte Lou Reed: una anni fa a Roma, a Enzimi, poco convincente. L’altra nel 2004 a Benicassim, eccellente: un grande Reed, fra classsici dei Velvet Underground riarrangiati, rumori bianchi, e soprattutto stile, stile, stile. E ieri sera ero convinto di vedere l’altra metà dell’anima velvettiana, quella tosta, John Cale. Ammetto che della carriera solistica di Cale non conoscevo nulla e ho commesso l’errore madornale di crearmi delle aspettative conformi alle produzioni dei VU. Mi immaginavo pezzi difficili, lunghi, viole straziate, musiche che richiedono concentrazione, roba da intellettuali insomma. Cale era quello uscito dal conservatorio il musicologo, mi dicevo. Quello che ha inoculato la vena avanguardistica, abrasiva e sperimentale nei Velvet, la viola – strumento classico – nel caos sonoro chitarristico, nella depravazione musicale urbana.  Il compositore timido,  e represso, l’incompreso, il reietto. Cale ha lavorato come produttore con Nick Drake, Patti Smith e Iggy Pop. Cage per dirla alla LCD soundsystem, non solo "was there" quando c’era la Factory di Warhol, Cale "was it". Insomma ero pronto ad approcciare un mito, uno che ha avuto un impatto sulla storia della musica moderna la cui portata capiremo forse fra qualche anno, ero la deferenza personificata, avevo tutte le migliori intenzioni. Ero emozionato e pronto.

L’arrivo al Mylos mi inquieta: c’è gente che fuma per le scale, qualcosa non va. Si viene a sapere poi anche dal palco che Mr Cale non gradisce che si fumi ai suoi concerti. I greci, popolo indisciplinato come pochi altri, lo ascoltano. Il rispetto per la figura è tale da sortire effetti che nemmeno multe potrebbero ambire ad ottenere. Però ci pensi alle interviste che hai letto, alle droghe di ogni tipo che alimentavano la macchina Velvet Underground, ma dici fra te e te, vabbè, ne è passato di tempo. Poi ci avvisano anche che Mr Cale,  lo stesso provocatore che decapitava polli sul palco, non gradisce i flash delle macchinette fotografiche. Di nuovo ci si interroga, ma ci si ripete come un mantra "Oh ma è John Cale, fanculo le sigarette e pure i flash".

Poi entra in scena. Si tratta di una fotocopia sciatta e ingrassata di Dustin Hoffmann, non ci piove. Ma imbraccia la viola e comincia a suonare e cantare Venus in Furs, si poteva iniziare meglio?

Si nota la gradevole presenza di un omino dotato di torcia, a fianco delle casse, che controlla il pubblico in cerca di qualcuno che fumi o rubi immagini con macchinette fotografiche o videocamere. Chi viene sorpreso in flagranza di reato viene puntato con la luce, rimproverato e additato al ludibrio davanti a tutti gli altri bambini spettatori. Converrete che non è proprio il genere di situazioni che ti fanno concentrare su un concerto a cui tenevi,e che ti aspettavi denso e intenso.

"Fortunatamente" non è che poi ci fossero ‘ste grandi atmosfere fitte a cui stare attenti e da cui lasciarsi trascinare. Oltre a Cale, che si destreggerà fra tastiere e chitarre (senza più toccare la viola) la band è composta da tre ragazzetti: un chitarrista con delle orecchie assolutamente spropositate, un bassista ricciolino, tipo attore di film porno tedesco anni 80, e un batterista negro, fichissimo e bravissimo. Dopo il primo brano, relativamente fedele all’originale, inanellano una serie di pezzi che è fin troppo facile etichettare come del tremendo hard rock. Aspetto in ogni momento che salti fuori Ritchie Blackmore a farci Smoke on the water. Una musica dozzinale, tamarra, banale, noiosa (tipo Sold Motel dall’ultimo Black Acetate).

Immediatamente al secondo pezzo Mr Cale si spazientisce, perchè aveva chiesto all’omino delle luci di spegnerne una che gli dava fastidio agli occhietti. La cosa non è avvenuta esattamente come desiderava, e lui, senza smettere di suonare, ha iniziato a intercalare con "Turn the fucking light off" e gesti scomposti la sua esecuzione, fra un chorus e un verse. O forse era davvero un verso della canzone e i gesti una coreografia minimalista. Comunque.

Il quinto pezzo è il lento e crudele omicidio di Femme fatale ("a couple of old songs rearranged", ci presenta Mr. Cale ilare). Ed è lì che finisce il mio concerto. La mia anima si dissocia dal mio corpo ed esce infastidita dal locale, anche se fisicamente resto lì ad amareggiarmi ancora e a far arredamento. Mi viene in mente che come occorrerebbe togliere la patente ai vecchietti dopo una certa età, per non farli andare in giro a far danni, così occorrerebbe fare coi musicisti in età da Alzheimer. Togliergli la possibilità di rovinare i loro stessi brani, evitando che deturpino bellezze musicali che hanno partorito in gioventù, oltre che le belle memorie o le belle cose che si sanno su di loro. Peggiora tutto Perfect, poppettino radiofriendly insulso, che credo sia addirittura il singolo. Non aiuta nemmeno la discreta Gravel con chitarra acustica, proposta in occasione delle striminzito (grazieaddio) bis. Verso la fine, prima di iniziare un pezzo, Mr. Cale a braccia conserte scruta fisso uno spettatore reo di fargli foto col cellulare. Poi gli chiede "What the fuck are you doing?", poi gli dice "Fuck you". La gente nemmeno fischia, perchè il locale, nel frattempo s’è mezzo svuotato. La ciliegina sulla torta direi. Prima di andare via fa ancora in tempo a lamentarsi del caldo che fa sul palco. Considero che con i soliti stracazzo di tenta euri mi sono visto Cale, un pezzo enorme di storia della musica, un mentore dall’influenza incalcolabile per una marea di band dagli anni 70 in poi. Il quale è incidentalmente un nonnetto indisponente, maleducato, insofferente e capriccioso. E come se non bastasse suona musica di merda in una una cover band dei Deep Purple. Cale ebbe a dichiarare riguardo ai VU "Il nostro scopo era mettere a disagio gli spettatori, farli sentire fuori posto, farli vomitare". Ancora una volta missione compiuta Mr. Cale. Il provocatore, ha vinto di nuovo. Me ne vado dal Mylos irritato e scontroso. Aridatece gli Steppenwolf.

(Veronica, perdono)

9 Comments on “John Cale a Salonicco. Una prece”

  1. visto che c’eri anche tu nel 2004 in Spagna, concorderai con me che Cale non può aver fatto una figura più terribile e penosa di Arthur Lee…Conosco gente che da allora non rivuole più indietro il cd dei Love in mio possesso.

     

  2. mi sono fermato solo il giorno di Reed (meglio conosciuto come quello della cancellazione di Morrissey)

     

  3. stavo pensando esattamente a garnant quando ho letto. peccato.

     

  4. Pensa che io i VU li vidi ai tempi della reunion- quindi, senza Santa Nico e quindi, senza la principale ragione per vederli (almeno nella mia personalissima parèid). Aprivano (!) il concerto degli U2 (!!) e suonarono subito dopo Ligabue (!!!). Inutile dire che lo stadio San Paolo aveva tributato fino a pochi minuti prima standing ovation ad immortali capolavori come Ho Messo Via, e pochi minuti dopo era tutto intento a sommergere di fischi l’esecuzione di All Tomorrow’s Parties (cantata dallo stesso Cale, proprio perchè Santa Nico eccetera).

    A.30mo

    ps. un mio amico pedante e noioso mi chiede di precisare che Cale suona su Northern Sky, ma non ha mai *prodotto* Drake.

     

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  9. senti, hai veramente rotto. se non ti piace la grecia VATTENE VATTENE VATTENE NELLA TUA CARA ITALIA.