Last in translation

07 March 2004 | By benty in Senza categoria

Il fantastico calembour che ho deciso di utilizzare come titolo del post odierno, oltre a catapultarmi di diritto fra i blogger più originali del decennio a venire, sta a significare che, buon ultimo nella blogosfera, sono anche io andato al cinema a vedere il film della Coppola. Chiosate pure strafottendovene, avrei fatto lo stesso. Un film molto ben fatto, e che per vari motivi mi è piaciuto. Ma poichè di tutti gli aspetti positivi si è già discusso in abbondanza altrove, cercherò di condurre una pacata riflessione su quelli negativi. Andiamo a cominciare.


Primo: cos’è ‘sta storia dei microfoni che si vedevano in almeno tre o quattro scene ? Mi rifiuto di credere che non se ne siano accorti, parliamo sempre di Hollywood, mica del festival di Roccacannuccia. Meta-cinema ? Coltissimi riferimenti a qualcosa che mi è decisamente sfuggito, tipo qualche b-movie ? Un vero tocco di lo-fi ? Della vera stronzaggine ?


Secondo. Non che io sia un grande esperto di cultura giapponese: vanto unicamente le preziose conoscenze che ho acquisito tramite la ripetuta visione di perle del cinema d’animazione nipponico, quali Hello Spank e Mimì e la nazionale di pallavolo. Tuttavia, come erà già stato notato prima da altri osservatori, il film, oltre al pluricitato straniamento, sfasamento, smarrimento e smarronamento dei protagonisti , sembra pervaso da un razzismo neanche tanto nascosto. La cultura giapponese (cibo, tv, approccio fisico, pronuncia della R e quant’altro si vede e ascolta) ne esce abbastanza malconcia direi, ci si limita a liquidarli come “Strani forte”. D’accordo, non voleva essere mica un documentario, mi si dirà. Però si era da più parti detto che Tokyo e il Giappone, in L.I.T. costituivano non solo lo sfondo, ma erano bensì parte attiva e soggetto co-protagonista della storia. Una controparte che da ciò che si è visto recitava per luoghi comuni e stereotipi piuttosto usurati. Il che, ad un povero di spirito quale sono io, alla fine può anche dare una certa qual gratificazione. Si esce dal cinema convinti che sul Giappone si sappia già tutto e che Tokyo sia davvero tutta lì, visto che quelle quattro parole che vi si collegano per riflesso pavloviano compaiono o vengono citate tutte. Sakè, Gheisha, Shiatsu, Sushi, Origami, Ikebana, Karaoke, Mai dire banzai, manga/hentai e via continuando. Mancava “ninja”, e non mi sarei sorpreso che da qualche parte (magari calandosi abilmente da uno dei microfoni in bella vista) facesse capolino Sasuke, uccidendo Bill Murray a colpi di shuriken e katana e conquistando il cuore di Charlotte. Questo è per dire che poi non ci dobbiamo lamentare degli stereotipi che esportiamo, quando vengono fedelmente riportati dai cineasti stranieri per le loro storie ambientate da noi. Perchè quella è l’Italia che tutti si aspettano di conoscere e l’unica che possono riconoscere. Temo insomma che se la Coppola dovesse mai decidere di ambientare in Italia il seguito di L.I.T. la storia avrebbe come sfondo o’ Vesuvie, come sottofondo o manduline, mentre Bob e Charlotte mangiano, rigorosamente all’aperto, degli spaghetti in allegria e tutti parlano napoletano e canticchiano felici, anche se la storia si dovesse svolgere a Bergamo alta in inverno.



Arigatò.


10 Comments on “Last in translation”

  1. Ma che citazionismo: i microfoni non sono colpa del regista ma del proiezionista del cinema che non li ha “tagliati” adeguatamente.

     

  2. uhm, devo ancora vedere sto film…. ormai me lo piglierò a noleggio, va

     

  3. per curiosità, chi erano gli altri osservatori che avevano parlato del razzismo del film?

     

  4. se mi ricordo bene una recensione dell’internazionale. O era Diario? Poi cerco e metto il link

     

  5. era una recensione di lodoli su diario, assolutamente condivisibile. solo che lodoli comincia dicendo che gli americani sono ignoranti e superficiali nel giudicare i paesi stranieri, al contrario di noi europei (esempio da manuale di ignoranza e superficialità nel giudicare un paese straniero).

     

  6. la storia dei microfoni la noto di continuo nei film americani, anche in quelli hollywoodiani più ricchi. forse ha ragione l’anonimo, ma non sarebbe meglio tagliare l’immagine già al momento della stampa del film? tanto più che poi si vedono anche in tv.

     

  7. …visto che stanotte non si dorme…non si può no no no….faccio un salto nel tuo blog caro benty…non ho visto lost in translation, però guardavo spank e mi commuovevo sempre quando diceva ‘ciaooooo bimba’ e giù la goccia dal nasino eh eh eh…sniff sniff 🙂
    ciao benty
    Louisiana aka Aika Morimura.

     

  8. Che dire… a me il film è piaciuto. Ma in effetti non avevo fatto caso a tutti gli stereotipi. Complimenti per la recensione perchè è meravigliosa!

     

  9. Non sono d’accordo. Questo non era un film sul Giappone, ma su due americani in Giappone.
    Non due antropologi, non due sociologi, non due persone intenzionate a capire il Giappone per chissà quale motivo.
    Quindi hanno visto quello che hanno potuto, pur avendo amici giapponesi e molti soldi, il che a Tokyo aiuta. Il loro comportamento da americani in gita è piuttosto normale.
    Dai, pensa ad Amsterdam, a un viaggio che hai fatto lì e pensa a come lo hai esposto a tua mamma quando sei tornato.
    E poi, se leggessi la agile e interessante raccolta di saggi edita da Instar libri,
    “BABURU
    I figli della grande bolla” di Karl Taro GREENFELD potresti rivedere in queste pagine molte immagini del film. Lo dicono anche Yash e Sumi i miei due amici giapposesi.
    http://catalog.mtrade.com/cgi-win/Catalog.exe?Browse;Catalog=blued;Query=11186;Lang=ita
    ciao!! comida de mama

     

  10. ahem, GIAPPONESI, dopo una certa ora mi si slacciano le sinapsi, sorry.